Nella notte del 21 luglio si è conclusa la Convention Nazionale del Partito Repubblicano, il circo terribile e bellissimo — come l’abbiamo definito — che ha incoronato definitivamente Donald Trump a candidato ufficiale per le elezioni presidenziali del prossimo autunno.

Tra gli ospiti che sono saliti sul palco della Quicken Loans Arena di Cleveland nel corso dell’ultima serata c’è stato anche il miliardario venture capitalist Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, consigliere di amministrazione in Facebook e membro stabile nella top ten della Midas List di Forbes.

Aperto sostenitore e delegato di Trump a partire da maggio — dopo aver finanziato nel 2007 e nel 2012 la campagna di Ron Paul — Peter Thiel sembra una mosca bianca nell’ambiente giovanile e tendenzialmente liberal della Silicon Valley, considerato quanto mai distante dalla retorica nazionalista e suprematista di Trump. Forse anche per questo motivo gli è stato concesso uno spazio di rilievo, poco prima dell’intervento conclusivo dello stesso Trump.

“Io supporto le persone che costruiscono cose nuove, dai social network ai razzi spaziali. Non sono un politico — ma non lo è neanche Donald Trump,” ha esordito. “Lui è un costruttore, ed è tempo di ricostruire l’America.”

Il discorso di Thiel — poco più di cinque minuti — si è mantenuto poi su toni abbastanza standard, incentrati sulla retorica del bel vecchio futuro andato, quello del sogno americano rovinato da un’economia guasta — con i “banchieri di Wall Street che gonfiano bolle dappertutto, dai titoli di stato ai discorsi di Hillary Clinton.”

Verso la conclusione, com’era stato preannunciato, è arrivato l’atteso outing: “Certamente, ogni americano ha un’identità unica: io sono orgoglioso di essere gay, sono orgoglioso di essere repubblicano, sono orgoglioso di essere americano.”

Tralasciando la contraddizione del supporto a un candidato da cui la comunità LGBT non ha da sperare nulla di buono — fa parte dello stesso schema per cui, poco prima, il reverendo Mark Burns, nero, gridava dal palco lo slogan “All lives matter” — l’outing arriva curiosamente poche settimane dopo il contributo di Thiel stesso alla bancarotta di Gawker Media, tramite il finanziamento della causa legale multimilionaria dell’ex wrestler Hulk Hogan contro il sito di gossip — il cui blog Valleywag era colpevole di aver definito nel 2007 Peter Thiel totally gay. Un esempio inquietante (e non isolato) di come sia semplice, per chi è in grado di muovere enormi quantità di denaro, mettere in difficoltà gli interlocutori sgraditi.

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Quando non fa fallire giornali, Thiel guadagna di tanto in tanto gli onori delle cronache per i progetti bizzarri — al pari del vecchio collega Elon Musk — su cui dirotta i soldi dei propri hedge fund: spingere gli studenti eccellenti a non andare al college per dedicarsi allo sviluppo di una start-up, fondare su un’isola una nazione compiutamente libertaria, sconfiggere la morte, cose così (ma per qualche ragione non ha deciso di sostenere il candidato del partito transumanista Zoltan Istvan, che ha l’immortalità al centro del proprio programma politico).

Nel dibattito che si è scatenato sui motivi possibili del suo sostegno a Donald Trump (e l’analisi migliore è senza dubbio questa) è stato messo l’accento prima di tutto proprio sul suo carattere eccentrico, capriccioso e radicale, non rappresentativo degli umori dell’establishment tecnologico statunitense nel suo complesso.

I dati sulle donazioni elargite per la campagna elettorale — poco più di 16 mila dollari contro gli oltre 2 milioni ottenuti da Hillary Clinton — e qualche sondaggio sulle intenzioni di voto dimostrano infatti che Trump gode di scarsissimo favore anche tra gli esponenti dichiaratamente repubblicani della Valley.

Trump, dal canto suo, non si è fatto mancare alcune prese di posizione sufficienti ad alienargli ogni eventuale simpatia residua fra i techies, come il boicottaggio invocato ai danni di Apple — che si rifiutava di sbloccare l’iPhone dell’attentatore di San Bernardino — o addirittura l’intenzione di spegnere internet, come se fosse possibile.

Alla conferenza F8 dello scorso aprile, Mark Zuckerberg, pur senza nominare Trump, si è schierato duramente contro chi “reclama la costruzione di muri” e ostacola il progresso dell’interconnessione globale, causando la dura reazione del team del candidato repubblicano, che attraverso una propria portavoce ha detto che il fondatore di Facebook dovrebbe “rinunciare a tutta la sua sicurezza privata, uscire dal suo quartiere snob e trasferirsi in una città vicino al confine.”

Come per fugare ogni dubbio, il 14 luglio un centinaio di imprenditori, inventori, professori e altri operatori del settore dell’alta tecnologia — tra cui Steve Wozniak, co-fondatore di Apple, e Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia — hanno firmato una lettera aperta contro Donald Trump, in cui si legge: “Crediamo in uno Stato inclusivo che favorisca la creatività e un pari livello di opportunità per tutti. Donald Trump no. La sua campagna si basa sulla rabbia, sul bigottismo, sulla paura delle nuove idee e delle nuove persone […]. Trump sarebbe un disastro per l’innovazione.”

Ma il trumpismo di Peter Thiel trova solide radici nel passato ideologico del personaggio.

Attivista politico conservatore sin da giovane, nel 1999 è co-autore di un libro intitolato The Diversity Myth, in cui il multi-culturalismo nei campus americani è preso di mira in quanto causa di repressione intellettuale in nome del politicamente corretto — e Donald Trump è senz’altro un campione di scorrettezza.

In un saggio scritto nel 2009 e molto citato, Thiel si spinge a teorizzare l’incompatibilità fra libertà e democrazia, tanto che c’è chi ipotizza che il supporto a Trump si possa giustificare proprio con la possibilità che una sua presidenza faccia crollare definitivamente la democrazia in America — ma basta notare che un regime con minore regolamentazione da parte dello Stato è la scelta naturalmente preferibile per il nuovo capitalismo americano.

La proposta di Trump, anzi, si preannuncia all’insegna di un minore interventismo non soltanto sul fronte economico interno, ma anche e soprattutto su quello estero — a differenza del Partito Repubblicano guidato dai Bush, per esempio — e Thiel, nel suo intervento alla convention, non ha mancato di cogliere il punto, affermando con grande semplicità: “Invece di andare su Marte, abbiamo invaso il Medio Oriente,” e criticando Hillary Clinton per il suo appoggio all’intervento militare in Libia.

Per certi aspetti, si tratta soltanto di portare alle estreme conseguenze il nucleo centrale dell’”ideologia” della Silicon Valley — a partire dal concetto stesso di disruption, che accomuna perfettamente lo stile imprenditoriale dei giganti tech californiani allo stile politico di Trump. La posizione di Peter Thiel potrebbe anche essere meno isolata di quel che sembra, se è vero che molti hanno ritegno a manifestare apertamente il proprio supporto, per evitare lo stigma da parte dei colleghi. Thiel è semplicemente abbastanza potente — e pericoloso — per non badare a simili scrupoli.