I profughi afghani costretti sotto un ponte della tangenziale Est

Cacciati dai centri di accoglienza, 20 profughi pakistani e afghani hanno trovato rifugio sotto il ponte della tangenziale Est. Siamo andati lì per parlare con loro.

I profughi afghani costretti sotto un ponte della tangenziale Est

Una volta, lo svincolo di Linate in direzione Sud era a sinistra. Le macchine che volevano uscire dalla tangenziale Est dovevano per forza portarsi in corsia di sorpasso, causando un gran numero di incidenti. Qualche anno fa, lo svincolo è stato portato all’ordine. La tangenziale scorre sopraelevata rispetto ai campi, lasciando un ampio spazio sotto al cavalcavia, lambendo da una parte il Parco Forlanini e dall’altra l’ex CIE di via Corelli e il CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di via L’Aquila.

Alcuni profughi afghani e pakistani si sono stabiliti sotto la tangenziale – alcuni dal weekend, altri da più di due settimane. Sono una ventina, tutti ragazzi di poco più di vent’anni. Hanno allestito un accampamento di fortuna con brandine abbandonate, cartoni, un piccolo armadio e la carreggiata di cemento come tetto. Usano un motore abbandonato per caricare i cellulari. Due di loro si improvvisano chef e usano un falò per preparare il té e qualcosa da mangiare.

Alcuni di loro sono qui dal weekend, ma molti di loro ormai da qualche settimana.

A portarci da loro è stato Ijaz, il profugo afghano che abbiamo incontrato in Stazione Centrale qualche giorno fa. Dopo essere stato lasciato senza un tetto dalle strutture d’accoglienza per motivi burocratici, si è unito ai suoi conterranei nell’accampamento di Linate. “L’altra notte il mio tetto sono state le stelle,” ci dice ridendo mentre ci incamminiamo con lui verso il piccolo insediamento. Il posto è davvero isolato dalla città. Per raggiungerlo, lasciamo la macchina davanti al CARA di via L’Aquila e proseguiamo a piedi su una via in mezzo ai campi. “Anche loro (riferendosi ai ragazzi che dormo sotto la tangenziale, ndr) non possono più rientrare nei centri” ci dice.

Anche i ragazzi afghani che dormono al CARA paiono essere interessati alla vicenda e decidono di venire con noi, chi per aiutarci con le traduzioni dal farsi e dal pashto, chi per pura solidarietà.

Ad accompagnarci c’è anche M., un ragazzo afghano di 23 anni. Quando è partito dall’Afghanistan, M. era così piccolo che ora non ricorda più nemmeno quanti anni avesse. Spesso in Afghanistan le nascite non vengono registrate, o perlomeno non subito. Per cui, facendo qualche conto, ci dice che quando è partito poteva avere all’incirca 11 anni. Ha vissuto cinque anni in Belgio dove ha imparato il francese, che ora parla perfettamente. Poi un anno a Parigi, e poi è arrivato in Italia. Condivide con noi dei ricordi dell’Afghanistan. “Là è tutto completamente diverso. Non è possibile viverci. Non c’è libertà”. M.

ha ottenuto il permesso di soggiorno in Italia. Vive ancora al CARA, ma ci dice che anche lui, fra due giorni, sarà costretto a vivere sotto lo svincolo della tangenziale.

“Il nostro problema sono i terroristi”, ci dice K., un ragazzo di 22 anni proveniente da un’area del Pakistan vicino al confine con l’Afghanistan. “I talebani, vicino a casa mia, una volta sono entrati in una scuola per attaccare i bambini. Non si può vivere così”. K. è in Italia da quasi un anno: è stato per molto tempo a Gorizia, per poi arrivare a Milano. Dopo  un periodo in un centro d’accoglienza, è finito qui, nel villaggio sotto la tangenziale.

Per raggiungerlo occorre infilarsi in un pertugio nella recinzione di cemento, coperto da un tappeto. Ad accoglierci, oltre alle brandine di fortuna, ci sono cinque o sei ragazzi. Sono tutti giovanissimi. Uno di loro indossa gli abiti tradizionali: “è un imam”, ci dicono. L’imam non parla inglese, e un ragazzo proveniente dalla sua stessa zona ci fa da traduttore, nonostante la balbuzie e la scarsa conoscenza della lingua.

L’imam ci racconta che non c’è libertà nel Nord del Pakistan. Ci dice che non si può andare a scuola e che se ci vai e dici anche solo una frase sbagliata, arrivano i talebani. “Avevamo paura,” prosegue il suo traduttore “i talebani a un certo punto arrivano, e puntano le pistole anche alle teste dei bambini. Dei bambini, ti rendi conto?”.

Gli chiediamo del viaggio, di quando sono arrivati in Europa e come. La maggior parte di loro ha attraversato l’Afghanistan per proseguire verso l’Iran. Poi ha valicato le montagne al confine fra Iran e Turchia, a piedi. “Ci scortava l’esercito iraniano,” ci raccontano i ragazzi “faceva molto freddo, e se qualcuno cadeva, lo lasciavano a terra. Non ci potevamo fermare, se no saremmo stati lasciati indietro anche noi, e non saremmo mai arrivati”.

Dopo la Turchia hanno attraversato i Balcani, seguendo la rotta via terra. “Non si ricordano bene i nomi di tutti Paesi per cui sono passati,” dice Ijaz “alcuni tratti li hanno fatti in macchina, con i trafficanti, altri a piedi o in treno”. Dai Balcani, sono arrivati in Italia.  Il viaggio, per la maggior parte di loro, è durato quasi un anno.

Mentre ci raccontano le loro storie, vediamo un ragazzo disporre un tappeto per la preghiera verso la Mecca. Inizia a pregare e per rispetto ci giriamo dall’altra parte. Domandiamo ai ragazzi se siano musulmani, ci dicono di sì.

“Lui è un Imam. Ha avuto problemi con i talebani. Se la sono presa persino con lui. I talebani non sono musulmani”.

Per fortuna i ragazzi riescono a non perdere il sorriso. A quanto pare l’Imam gioca a squash, ce lo dice il traduttore.

Scopriamo che i cuochi improvvisati in realtà sono bravissimi a cucinare. Ci offrono del tè, ma rifiutiamo ‒ sappiamo che hanno poche risorse. Nella zona “cucina” si vedono le braci di un falò, ci sono dei piatti e delle tazze, con avanzi di cibo. Sono pieni di formiche.

Vicino alla “cucina” ci sono delle taniche d’acqua. Ijaz ci spiega che l’acqua la vanno a prendere al Parco Forlanini. Dove fanno anche la doccia, di fronte ai passanti che gli spiegano ogni giorno che non è consentito lavarsi lì. Non ci sono bagni, ovviamente. Non c’è niente.

Uno dei problemi principali dei ragazzi sono le zanzare. “Non abbiamo mai visto così tante zanzare,” dicono ridendo. “Al tramonto si creano colonne altissime di insetti sopra gli alberi”. Chiunque frequenti Milano Est sa che in effetti sono un problema notevole d’estate ‒ soprattutto se si vive all’aperto. Quando gli chiediamo se possiamo portargli qualcosa di utile o necessario, chiedono l’anti-zanzare ancora prima dei vestiti.

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Mentre ci muoviamo tra i loro averi, cerchiamo di capire perché siano stati banditi dal centro. I ragazzi sono arrivati qui in momenti diversi, pare che alcuni di loro abbiano violato il coprifuoco dei tre giorni che vige nei centri d’accoglienza: se un profugo si allontana per più di tre notti senza avvisare o giustificare la propria assenza, viene automaticamente estromesso dall’intero sistema d’accoglienza italiano. La Croce Rossa che gestisce il CARA di Va L’Aquila, al telefono, sostiene di seguire in questo senso le disposizioni della prefettura. Altri, ci riferisce una fonte esterna, sembrano essere stati coinvolti loro malgrado in una rissa all’interno di un centro di accoglienza di Besnate ed espulsi di conseguenza. Le loro richieste di asilo verranno comunque esaminate, ma nel frattempo sono costretti a cercarsi un tetto da soli.

Torniamo alla nostra macchina, mentre i ragazzi si dirigono verso la città attraversando i campi. Probabilmente in questo posto cercano di stare il meno possibile. Ijaz però viene con noi: una famiglia brianzola ha deciso di dargli ospitalità. Mettiamo in moto e prendiamo la tangenziale Est verso Nord. Sotto di noi, nell’accampamento sono rimaste solo due persone distese sulle brandine.