Irina Bokova non è Margaret Thatcher. Niente chioma leonina. Niente accento british. Eppure la direttrice generale dell’UNESCO, candidata a prossimo Segretario della Nazioni Unite, passerà alla storia come la lady di ferro del patrimonio culturale globale. La donna che si è messa tra l’ISIS e i monumenti dell’umanità.
Figlia di un dirigente comunista della Bulgaria sovietica, Irina Bokova ha studiato alla MGIMO di Mosca, per poi intraprendere la carriera politica. Non estranea ai corridoi dell’ONU e della Organisation Internationale de la Francophonie, la Bokova è stata ambasciatrice in Francia e a Monaco, ha contribuito a riscrivere la costituzione bulgara e, nel 2009, ha conquistato il trono dell’UNESCO. Una scalata di tutto rispetto, non scevra da qualche critica, che la rende oggi tra le favorite nella corsa al vertice della diplomazia mondiale.
Iron lady, dicevamo. Perché se è vero che non ci sono carri armati all’UNESCO, è anche vero che di questi tempi l’organizzazione internazionale – nata per l’educazione, la scienza e la cultura – si è avvicinata come non mai alle tematiche della sicurezza globale. La più grande vittoria diplomatica di Irina Bokova, infatti, è stata la recente Risoluzione 2199 del Consiglio di Sicurezza ONU: la prima a stabilire una connessione diretta tra terrorismo, “ISIS, ANF e altri individui, gruppi, attività ed entità associate ad Al-Qaeda”, e la distruzione nonché il traffico di beni archeologici.
Del resto la Direttrice auspicava da tempo un intervento deciso delle Nazioni Unite. E se mai dovesse prendere lei il posto di Ban Ki-Moon, è ragionevole pensare che le cose non si fermeranno qui. Qualche giorno fa allora, in una spoglia saletta dell’Istituto per la Giustizia Globale dell’Aia, davanti a tazzine in porcellana bianca e bicchieri senza aloni, la Bokova parlava ‒ più da segretaria ONU che non da Mrs. UNESCO ‒ di rifugiati e lotta al terrorismo; di una task force per la cultura alla quale partecipano anche i Carabinieri; del caso al-Mahdi, che vede imputato all’ICC un “jihadista maliano” per distruzione del patrimonio culturale.
“Questi estremisti,” dice Irina Bokova a The Submarine, “stanno operando una deliberata pulizia culturale [“cultural cleansing,” n.d.a.] come mai si era vista. Pensate alle distruzioni in Mali, Siria e Iraq. Non sono danni collaterali, ma una vera e propria strategia di guerra. In questo senso la cultura irrompe sempre più nel campo della politica internazionale.”
Del caso al-Mahdi, poi, la Direttrice rivendica in un certo senso la maternità. Dopo la distruzione di mausolei a Timbuktu nell’estate del 2012, sarebbe stata proprio lei a stimolare un intervento della Corte Penale Internazionale sulla base dello Statuto di Roma. Mentre l’UNESCO, in vista del processo che comincerà il prossimo agosto, ha fornito agli inquirenti le necessarie consulenze tecnico-scientifiche.
E non dimentichiamo le “truppe”: i cosiddetti Caschi Blu della cultura. Un gruppo tutto italiano (preventivamente incensato dalla stampa nazionale), parte dell’iniziativa bokoviana Unite4Heritage e nato per la protezione del patrimonio culturale in zone a rischio. A comporlo una trentina di Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio e 29 esperti del Ministero per i Beni Culturali addestrati nientemeno che dal Reggimento Tuscania.
“Per la prima volta un accordo riconosce la protezione del patrimonio culturale nelle aree di conflitto non solo come una problema umanitario, ma come un imperativo della sicurezza,” taglia corto la Bokova. Spiegando inoltre che l’UNESCO sta lavorando a una legislazione europea contro il traffico di opere e che, sotto la sua supervisione, è nata una piattaforma inter-agenzie di cui fanno parte anche Interpol e l’Unità Anti-Terrorismo dell’ONU.
Il messaggio è insomma chiaro: agli “atti di guerra” non si risponde con la sola cultura.
Ma alla Direttrice non piace parlare di militarizzazione, nonostante per la prima volta un Comando militare – i Carabinieri, appunto – abbia firmato accordi con l’UNESCO e nonostante, unicum nella storia delle Nazioni Unite, l’agenda culturale e quella della global security si siano sovrapposte. È una questione di contingenze, dice Irina Bokova, se ora “questi estremisti” minacciano i valori delle Nazioni Unite. E se nessuno all’UNESCO avrebbe voluto occuparsi di sicurezza, processi o Caschi Blu, la realtà è esplosa e loro stavano lì.
A questo punto, le critiche da muovere sono altre. Anche secondo Daniele Morandi, professore di Archeologia all’Università di Udine con un ventennio di missioni in Siria e Iraq alle spalle: “La task force?”, commenta l’esperto contattato da The Submarine, “Va benissimo che ci siano i Carabinieri del TPC. Quello che non condivido, invece, è che siano stati esclusi archeologi con decenni di esperienza in teatri geopolitici come Iraq e Siria. Trovo poco utile che professionisti, con tutto il loro bagaglio di conoscenze e relazioni sul campo, non siano stati chiamati a collaborare.”
Non ha tutti i torti, Morandi, se è vero che oggigiorno il patrimonio maggiormente a rischio è proprio nel Vicino Oriente. Qui, dove sono venute a mancare determinate strutture, il paesaggio archeologico è stato martirizzato e i materiali trafugati in Siria e Iraq – attraversando Turchia, Libano e Giordania – sono finiti e continuano ad arrivare in Europa, Svizzera, Stati Uniti. In città come Monaco e Londra. A profittare di questo lucroso mercato nero è anche lo Stato Islamico, che nei territori sotto il proprio controllo tassa gli scavi clandestini – la hums, un quinto dei proventi – e concede licenze agli scavatori. L’ISIS, in breve, si finanzia trafficando beni archeologici con quegli stessi occidentali che giura di voler distruggere e, viceversa, dalle zone a rischio defluiscono i reperti con la complicità dell’Occidente. Sullo sfondo, la contraddizione infinita della global war on terror.
Non è più tanto chiaro, quindi, se siamo davanti a mostri che distruggono statue e monumenti, che portano avanti opere di pulizia culturale contro i valori della comunità internazionale – leitmotiv bokoviano – o se abbiamo a che fare con guerriglieri che fanno raccolta fondi. “La questione è complessa,” spiega l’archeologo, “Questi gruppi jihadisti di matrice salafita fanno spesso entrambe le cose. Da una parte l’ISIS distrugge. E le distruzioni sono la faccia complementare della pulizia etnica che viene fatta in Siria e Iraq Centro-settentrionale a danno del caleidoscopio di minoranze che vi abitano. Dall’altra, questi gruppi scavano e vendono per finanziare atti terroristici. Le immagini satellitari che monitoriamo assieme all’UNESCO mostrano cosa è successo nella valle dell’Eufrate e nella Siria Nord-orientale: gli scavi hanno ridotto a un paesaggio lunare luoghi come Mari e Dura Europos.”
In questa ottica, pure abbandonando i semplicismi del noi contro loro, pare giustificarsi un impegno di carattere poliziesco: di protezione del patrimonio culturale e lotta ai finanziamenti del terrorismo. E quindi via libera ‒ Franceschini, sempre a proposito di militarismo, dice “avanti tutta” ‒ ai Caschi Blu, alle risoluzioni ONU, ai processi e a un maggior interventismo dell’UNESCO.
Perché è di questo che stiamo parlando. Nell’operato e negli interventi pubblici di Irina Bokova, quindi nelle mosse dell’UNESCO, ci sono gli indizi di una svolta securitaria dell’organizzazione internazionale. Una deriva facilitata, se non guidata, dalla stessa lady di ferro: in questi anni la persona giusta al posto giusto. Quali saranno le conseguenze sul lungo periodo è impossibile dirlo. Mentre è lecito chiedersi se, nel breve termine, gli sforzi della Bokova e il suo lavorare agli “imperativi della sicurezza” non le abbiano soprattutto spianato la strada per le Nazioni Unite.