A dieci giorni dalla tragedia, la polemica intorno al suicidio del migrante gambiano continua: il mancato soccorso, il razzismo dei commenti, la malaccoglienza.
Hanno strappato il manifesto affisso a Venezia per ricordare Pateh: non ci sono dubbi — è stato intenzionale. Le tre strisce di cui si componeva sono state ridotte al minimo per renderlo illeggibile. Il collettivo di fotografi Awakening l’aveva esposto perché la città non dimenticasse, perché riflettesse su ciò che spinge a compiere un suicidio in pieno Canal Grande. Eliminarlo è stato un gesto crudele che di sicuro non è d’aiuto alla cattiva reputazione che si è procurata Venezia negli ultimi giorni.
A dieci giorni dalla tragedia, la polemica intorno al suicidio del migrante gambiano continua: il mancato soccorso, il razzismo dei commenti, la malaccoglienza. In molti si sono scatenati contro quel centinaio di spettatori presenti all’annegamento del ragazzo — inerti e passivi, ma non abbastanza da risparmiarsi battute razziste e riprendere la scena. È ormai chiaro che non si tratti più di un fatto di cronaca locale: la stampa britannica e statunitense non usa mezze misure per definire il razzismo insito nell’evento; anche la francese Libération tuona «l’avete trattato come un “negro”», riprendendo criticamente quel dispregiativo usato nei commenti.
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Dalle indagini della procura, basate essenzialmente su cinque video che riprendevano la scena, risulta attualmente indagato un conducente motoscafi per omissione di soccorso, “un atto dovuto” secondo il codice della navigazione. La difesa argomenta che l’uomo non aveva modo di accorgersi di ciò che accadeva in quanto occupato da manovre delicate. Così Pateh è annegato sotto lo sguardo di tutti, per poi essere recuperato senza vita dopo ore in fondo al canale. Il procuratore comunque assicura che, nonostante sia appurata la volontarietà del suicidio, le indagini “continuano a 360 gradi”.
Gli addetti del vaporetto pieno di spettatori che galleggiava a pochi metri da Pateh si difendono: “la responsabilità è di tutelare i passeggeri”, “è stato rispettato il protocollo, nessuno si doveva buttare”.
Per alcuni testimoni è possibile credere che pensassero di trovarsi dinanzi ad una bravata — altri invece non hanno scuse — ma oltre ogni accusa frettolosa è forse più costruttivo pensare alla condizione che ha spinto a compiere un gesto così drammatico e plateale. C’è chi descrive la vicenda come frutto della disperazione di una persona fragile, con problemi personali. Un dramma, certo, ma nessun accenno a cause esterne, al disagio di un migrante per cui le politiche di accoglienza possono essere vitali.
Risulta difficile superare lo scandalo delle grida discriminatorie durante l’annegamento del ragazzo: “Africa!” “Questo è scemo, vuole morire”, “e allora annegati”, “dai che torni a casa tua!”. Una donna addirittura ha fermato un bagnino intenzionato a gettarsi con un “sta facendo finta!”. D’altronde, cosa si poteva fare se con i salvagenti a pochi centimetri il ragazzo si è lasciato morire? “per soccorrere qualcuno serve la sua cooperazione!”.
Si scrive di un ragazzo ventiduenne, ma in realtà al suo arrivo sulle coste italiane Pateh non conosceva la sua età, gli fu assegnata. Questo è già abbastanza per rendersi conto della condizione psicologica di chi parte affidandosi alla disumanità degli scafisti e attraversa il mediterraneo senza niente, nemmeno la coscienza di se stesso, col sogno di scoprirsi, rinascere altrove.
Pateh Sabally, secondo una dichiarazione del cugino, si sarebbe appositamente recato in Canal Grande per compiere il suicidio, avendo lasciato la residenza a Milano senza alcuna ragione apparente. Si è supposto che il suicidio potesse essere dovuto alla revoca del permesso di soggiorno.
Se si fosse trattato di un atto di disperazione perché compiere il gesto nel bel mezzo di Canal Grande e non in solitudine? ha volutamente scelto Venezia: è doveroso domandarsi se sperasse di comunicare qualcosa. Il cugino Muhammed lo descrive come un soggetto fragile, ma fortemente annichilito dalla situazione che era costretto a subire in quanto migrante.
Qual è il pensiero dominante che popola il pubblico scelto da Pateh? I commenti e le testimonianze raccolti riflettono un pensiero popolare ostile all’immigrazione. Il Presidente del Veneto Zaia, oltre a fomentare sistematicamente la propaganda anti-immigrazione del suo partito, si è più volte espresso contro i modelli di accoglienza diffusa e il loro miglioramento. Le decisioni amministrative sono importanti, ma questo non concerne solo la politica — essa non è altro che la rappresentanza del vasto elettorato veneziano della Lega Nord.
Si è aperto quindi un dibattito anche riguardo alle amministrazioni locali, la regione Veneto ed il comune di Venezia. Il nord-est è infatti notoriamente una delle zone in cui la Lega Nord riscuote maggior consenso e di conseguenza è frequente l’utilizzo di espressioni e commenti in sintonia con le loro posizioni sull’immigrazione, che definire aspre sarebbe un eufemismo.
Anche la scelta del sindaco di pagare i funerali ha scatenato polemica. Il parroco ha dichiarato di rifiutarsi di accettare il pagamento, ritenendolo una strumentalizzazione politica della tragedia: «alla politica buonista voglio ricordare che non si possono continuare ad alimentare le speranze di mezzo mondo di venire in Italia».
A distanza di giorni sembra essere arrivato il momento della distribuzione delle responsabilità.
C’è chi attribuisce la colpa alla malaccoglienza, al fatto che da anni i governi trattano l’immigrazione in modo emergenziale quando si tratta di una situazione ormai strutturale, che necessita di seri programmi per facilitare l’integrazione in profondità. Anche sul piano del supporto psicologico che non è affatto secondario.
Fatti come questo di Venezia obbligano ad una riconsiderazione nel trattamento del migrante e della sua condizione. A gennaio l’Italia ha assistito a troppe vittime di questa mancanza: Pateh, Sandrine, simbolo delle trascuranze dell’assistenza nel Veneto, e Mussie, suicidatosi due giorni fa a Milano, un giovane eritreo in cura per superare i traumi psicologici subiti nel viaggio dall’Africa verso il nostro Paese.