Facebook ha annunciato mercoledì un nuovo progetto rivolto al mondo dei media e dell’informazione: si chiama Facebook Journalism Project e avrà lo scopo di intraprendere una “collaborazione più profonda” tra il social network e le organizzazioni giornalistiche, per sviluppare nuovi prodotti e, in definitiva, “offrire alle persone la conoscenza di cui hanno bisogno per essere lettori informati nell’era digitale.”

Come spiega Fidji Simo nel post di presentazione, il programma si articolerà in tre fasi:

  1. Sviluppo collaborativo di prodotti di informazione — nello specifico: nuovi formati; attenzione alla dimensione della stampa locale; nuovi modelli di business; ascolto reciproco;
  2. Corsi di aggiornamento e strumenti per giornalisti;
  3. Corsi di aggiornamento e strumenti per tutti — ossia, promuovere l’“alfabetismo dell’informazione” e cercare di ridurre la diffusione di notizie false.

Cosa c’è di concreto?

Per il momento, poco: per le vere novità — qualcuna già annunciata, come l’apertura gratis di CrowdTangle, uno strumento recentemente acquisito da Facebook che permette di analizzare in profondità i dati delle interazioni sul social network — bisognerà aspettare i prossimi mesi. Ma l’apertura stessa di questa specie di “organo consultivo” permanente tra Facebook e i media, storicamente uniti da un rapporto di amore e odio, significa già molto.

In primis, è l’ennesima oscillazione del comportamento schizofrenico seguito da Palo Alto negli ultimi anni sul tema: a partire dall’aggregatore di feed RSS Paper, lanciato nel 2014 (mai in Italia) e chiuso due anni più tardi, passando per l’introduzione degli Instant Article — prima per un ristretto numero di publisher, poi a tutti — fino al licenziamento dello staff editoriale che curava i “trending topic” e alle ultime modifiche all’algoritmo del News Feed, fatte per privilegiare i post di amici e familiari a danno di quelli delle pagine.

Sembra che Mark Zuckerberg e gli altri vertici del social network non abbiano ancora deciso che cosa essere. Nel dubbio, cercano di tenere un piede in tutte le scarpe: si capisce, così, come il Journalism Project possa stare insieme all’insistente rifiuto di ammettere il proprio ruolo come media company a tutti gli effetti.

In un’industria di per sé molto volatile, dove anche i colossi possono fallire e scomparire nel giro di pochi anni (vedi il caso Yahoo!), Facebook — che ha già un’età piuttosto alta per la media — deve adottare strategie per sopravvivere: non basta soltanto comprare i concorrenti, come WhatsApp e Instagram.

Così come i produttori di informazione hanno bisogno di Facebook per raggiungere il proprio pubblico, così Facebook non può farsi scappare una fetta di traffico nutrita e redditizia: non solo gli utenti interagiscono quotidianamente con decine di articoli e video, ma le pagine pagano profumatamente il social network — che serve da “distributore” — per far circolare di più e meglio i propri post.

Consumare informazione è diventato parte integrante dell’essere su Facebook — se ci fossero soltanto foto di gente che conosciamo appena e meme stupidi, lo frequenteremmo probabilmente molto meno. Ma soprattutto, altri servizi online non si lascerebbero sfuggire l’occasione di captare un settore di mercato lasciato scoperto. Per esempio, sarebbe un vero problema per Facebook se un numero critico di utenti passasse a utilizzare un servizio di feed RSS (l’unico modo decente di informarsi sul web da fonti diversificate, ma sfruttato da pochissimi) capace di diventare finalmente popolare — non mancano certo esperimenti e startup in questa direzione.

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Nel suo sforzo di diventare un luogo virtuale omnicomprensivo, insomma, Facebook non può rinunciare alle notizie. Ma, esposto negli scorsi mesi a tutta la bufera sulla post-verità in seguito all’elezione di Trump, è costretto a uscire dalla posizione di ambiguità tenuta finora. Il Journalism Project sembra rispondere a questa necessità: riprendere il discorso iniziato con gli Instant Article, per spingere Facebook non verso la direzione di un aggregatore di notizie, ma trasformarlo sempre di più in una piattaforma di pubblicazione diretta. È questo l’obiettivo a lungo termine di Mark Zuckerberg.

Di qui l’accento posto sui “nuovi strumenti” da sviluppare di concerto con i rappresentanti dei media, e su quelli che esistono già — come i Live, che saranno resi più facili da usare per i singoli reporter a nome delle testate.

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Promuovere la news literacy, dunque, ma sempre all’interno di Facebook, ignorando che il problema delle notizie false — oltre ad essere diventato oggetto di una bolla inflattiva con pochi precedenti — è soltanto parte di un problema più ampio, che riguarda non soltanto la veridicità delle notizie diffuse, ma la rilevanza editoriale che viene data a ciascuna notizia, l’ordine cronologico con cui vengono consumate, nel contesto di una profonda crisi di autorità che ha investito tutti i media tradizionali (anche su internet), e che proprio nella struttura dei social network — dove chiunque vale come fonte per se stesso — trova una delle sue cause.

A quest’ultimo proposito, una delle novità più interessanti annunciate come parte del Journalism Project è la partnership con First Draft News, un consorzio no-profit di editori e testate giornalistiche dedicato allo studio e alla definizione di una nuova deontologia professionale per l’uso di fonti dirette attraverso il web.

Sono passi avanti verso l’accettazione di una realtà ormai impossibile da ignorare: il giornalismo online deve abituarsi a condizioni diverse da quelle di trent’anni fa, e dovrà dotarsi, di conseguenza, di regole diverse.

Ma quanto potrà essere dannosa questa promiscuità con Facebook? Molto, perché il social network ha il coltello dalla parte del manico — non esistendo alternative credibili a cui gli editori possano rivolgersi per raggiungere un pubblico equiparabile — e ha già dimostrato di essere un partner inaffidabile.

Dal Journalism Project potranno nascere molti miglioramenti all’attuale stato di cose — un esempio fra tanti: dotandosi di strumenti più adatti alla pubblicazione di notizie, Facebook potrebbe concedere alle testate di “rompere” l’ordine cronologico dei post nelle pagine, restituendo loro almeno un limitato margine di controllo editoriale; potrebbe addirittura accettare di separare le notizie dal “news feed” principale, recuperando l’idea di fondo di Paper.

Dall’altro lato, approfondendo i propri legami con i media outlet di tutto il mondo (e quindi accrescendo la loro dipendenza dai propri servizi) Facebook rischia di diventare di fatto un editore e distributore di notizie unico, che agisce in regime di sostanziale monopolio. Uno scenario inquietante e difficilmente reversibile, da cui però la stampa non sembra essere in grado di sottrarsi.