La scorsa notte Renzi ha riconosciuto la sconfitta al Referendum confermativo sulla riforma costituzionale e ha annunciato le proprie dimissioni, praticamente immediate, dalla carica di Presidente del Consiglio. Il giorno dopo, su richiesta di Mattarella, ha annunciato di aver congelato le proprie dimissioni fino all’approvazione della legge di bilancio, che in questo momento è in seconda lettura al Senato.
Restano in sospeso alcune questioni: quando si andrà a votare e con che legge elettorale; che fine fanno “le riforme” volute da Napolitano e – non meno importante – che fine fa il Partito Democratico, che anche dopo la facciata al referendum resta il primo partito d’Italia – per ora.
Per fare chiarezza su cosa ci aspetti, abbiamo rubato dieci minuti a Chiara Geloni, che di crisi di partito se ne intende come nessun altro, essendo stata portavoce di Pierluigi Bersani proprio durante le scorse tragiche elezioni, in quelle settimane che avrebbe poi chiamato Giorni Bugiardi.
Le riforme sono fallite. Erano fortemente volute dalla presidenza Napolitano. Considerata l’assenza della questione dall’originale documento congressuale di Renzi, la ragion d’essere delle riforme stesse è ormai molto dubbia. Ma allora, la riforma costituzionale è un problema di governo o di partito? Renzi non si sarà dimesso dalla cosa sbagliata? E a dire il vero, deve proprio dimettersi da qualcosa?
Allora. Il ragionamento di Renzi io lo capisco anche — effettivamente Napolitano diede al governo il mandato di accompagnare il Paese attraverso una riforma costituzionale. E questa riforma aveva dei titoli: il superamento del bicameralismo perfetto, riduzione dei costi della politica, eccetera. Il mandato viene dall’allora Presidente della Repubblica, ma se poi la riforma esce fuori brutta, e i cittadini la bocciano pure, nessuno può dire “Ma voi all’inizio eravate d’accordo.” Premesso questo, la scelta di dimettersi è una scelta di Renzi, e io la rispetto.
Cosa succede adesso nel Pd? Il segretario sembra traballare, ma non si vedono potenziali avversari interni davvero credibili. In particolare, adesso che le riforme si sono arenate, il Pd dove va? Negli ultimi anni la totalità della retorica renziana ha lavorato su questo. Come recupera la sua identità, chiamiamola di classe, ma anche generazionale?
Io credo che il Pd abbia bisogno, dopo la stagione della rottamazione, di ricostruttori: di persone che si mettano al servizio di questo progetto politico prima che del proprio ego, e che lavorino per ricostruire un progetto collettivo – e tanti rapporti umani. Il Pd non è un partito nato per fare le riforme costituzionali, è un partito nato per rappresentare un centro-sinistra riformista e di governo. E questo deve tornare a essere, ricostruendo un rapporto con i cittadini italiani che in questi tre anni ha perso — perché il voto di domenica, con un’affluenza così grande, non è stato solo un voto sulla riforma costituzionale. È stato un voto su un’esperienza politica che purtroppo non è stata condivisa dai cittadini italiani, e che hanno mandato un segnale forte e chiaro. Il Pd, azionista di maggioranza di questo governo e dominus di tutte le vicende politiche di questi tre anni, deve fare una grande riflessione su quello che ha proposto agli italiani in questi anni e anche su come si è posto, agli italiani. Sull’immagine di chiusura che ha trasmesso, che non è quella dell’ispirazione originaria — progressista e plurale — del Pd.
Prima parlavamo di rottamare, ed è davvero quello che ha fatto Renzi, spesso con conseguenze devastanti, specie sul territorio. Ma in realtà un po’ nel Pd c’è questa tendenza di vedere finire tutti i propri segretari “eletti” bruciare male male: non da prima di Renzi, anche da prima di Bersani. Certamente quello che si è fatto a Bersani è ben diverso, ma viene da chiedersi — siamo al momento “Per me è troppo, mi dimetto” di Renzi, o se questo è solo l’inizio delle difficoltà per l’attuale guida del Partito Democratico.
Insomma, che il Partito Democratico non sia mai stato un partito tranquillo, e tantomeno un partito dei leader, sono d’accordo. Per quanto mi riguarda è anche un bene — si vince, si perde, e all’occorrenza si cambia. Mi sembra sano e democratico. Non è questo che è successo a Bersani.
Certo.
Che è stato vittima in un vero e proprio tradimento, evento che ha segnato tutte le vicende successive del Pd. Altri segretari — ora dirlo può sembrare antipatico — si sono dimessi dopo delle sconfitte nelle elezioni e della loro linea di conduzione del partito: questo è normale, come è normale quello che sta succedendo a Renzi, che avendo personalizzato al massimo e impropriamente la questione riforma costituzionale raccoglie quello che ha seminato. Se oggi sente l’esigenza di lasciare, esigenza che ripeto, io rispetto, è perché lui ha creato una situazione che rende questo esito un po’ inevitabile. Ma nessuno ha lavorato a tradimento contro Renzi: questo è un responso democratico, quello che è successo è conseguenza di scelte politiche — Renzi non ha voluto i voti della minoranza Pd e ha fatto di tutto per esasperare il conflitto.
Ha fatto di tutto per perderli?
Sì, e si vede da come stanno reagendo i suoi collaboratori — e anche i suoi tifosi. Si è sempre lavorato per esasperare i conflitti e mai per ricomporli. Io quando sentivo in campagna elettorale rinfacciare a Bersani, “tu questa riforma l’hai votata tre volte” — a me veniva sempre da dire, “Pensa che sei riuscito a farti votare contro pure da uno che ti ha votato tre volte:” un bel capolavoro politico.
Quando Renzi ha rovesciato Letta, nel Pd non erano tutti d’accordo — non è vero che fossero tutti d’accordo. Bersani, che aveva subito l’intervento al cervello da quindici giorni, è venuto a Roma a votargli la fiducia, a proposito di lealtà — anche se non era d’accordo con quell’operazione politica. Ci sono battaglie politiche e ci sono stati tradimenti, e sono cose diverse.
Io spero che il Pd torni a essere un partito dove un segretario se sbaglia, se subisce una sconfitta, si fa da parte senza che questo significhi la morte di un progetto politico, senza che questo significhi delle scomuniche, o sputare sulla propria storia — io non sono mai stata veltroniana, ma stimo Veltroni per esempio, come tutti i protagonisti della storia collettiva di cui mi sento parte. Ci si scontri politicamente, come tutti i partiti democratici del mondo occidentale.