Mi ricordo ancora quella mattina. A me il mare d’inverno piace tanto. Appena sveglia guardavo le onde infrangersi sugli scogli.
Il telefono ha iniziato a squillare. Ci saranno state trenta sue chiamate e tantissimi messaggi.
Li ho aperti, spaventata. Temevo gli fosse successo qualcosa, ma poi ho capito. Nei messaggi mi accusava e mi minacciava. Diceva che sarebbe venuto dove ero. Non accettava che lo avessi lasciato.
Poi una sfilza di note vocali in cui urlava come un pazzo. Nessuna parola, si sentivano solo le grida.
Poi altri messaggi, ripeteva il mio nome e mi diceva che si sarebbe ammazzato, se non gli avessi risposto.
E dopo aver ricevuto l’ennesimo messaggio con una fotografia con un coltello, sono cascata in quella che si sarebbe rivelata una trappola e gli ho risposto.
Ero spinta dal senso di colpa, mi è sempre stato difficile lasciar andar via le persone. E dopo una storia lunga, era ancora meno facile.
Ci eravamo conosciuti tempo prima al lavoro. Avevamo entrambi la stessa passione che ci ha legato. Mi affascinava il suo modo di fare, il fatto che piacesse a tutti e che sapesse così tante cose. Ma forse, affascinare la vittima è solo un primo passo per tenere in scacco una persona.
Stavo tornando in città. Il telefono continuava a squillare. Chiamate a cui non rispondevo, per paura. Ero spaventata, lo ero molto. Poi messaggi, ancora urla e minacce.
Arrivata in città, valigia alla mano, stavo tornando verso casa. Mentre mi avvicinavo sentivo che c’era qualcosa che non andava, avevo un brutto presentimento.
Mi ricordo che faceva freddo, molto freddo. E non vedevo l’ora di arrivare nel mio appartamento.
Lui era sotto casa ad aspettarmi, con un sorriso beffardo. Era irriconoscibile. Non era l’uomo che avevo ammirato e amato per tutto quel tempo.
Nei suoi occhi c’era una luce strana.
Per fortuna ero al telefono con mia sorella. Le ho detto che era lì, e lei ha preso la macchina ed è corsa da me.
Si è avvicinato, io ero impietrita. Non riuscivo a muovermi. Aveva in mano un sacchetto con alcune mie cose. Ha iniziato a prenderle e a lanciarle per terra.
Mi guardava con uno sguardo che mi ha pietrificata. Mi urlava addosso con tutta la forza che poteva. Una rabbia così, non l’avevo mai vista.
Mi ha spinta all’indietro. Non sapevo cosa fare, avevo davvero paura. E ho iniziato a urlare chiedendo aiuto.
Lui continuava a insultarmi e a dire che si sarebbe fatto del male e si sarebbe ucciso per me, per quanto mi amava. Non riesco a togliermi dalla mente quella scena, me la porto dietro ogni giorno.
Poi si è fatto male, “per te”, come diceva. Vedere una persona con cui avevo condiviso tutto farsi del male in quel modo mi ha raggelato il sangue nelle vene.
Sono intervenuti dei passanti che hanno chiamato l’ambulanza.
Nonostante avesse il viso e le mani piene di sangue, continuava a urlarmi contro. Se non fossero intervenute quelle persone io non so cosa sarebbe successo.
Quando è arrivata l’ambulanza è arrivata mia sorella che mi ha presa con sé e mi ha portata a casa.
Anche ora, mentre scrivo questi ricordi, sento un vuoto che mi rimbomba dentro. Sento ancora le urla, vedo ancora i coltelli.
Sono passati pochi giorni e ha continuato a scrivermi. Si sarebbe ucciso, sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita. Provavo un senso di colpa che solo più tardi ho capito non avrei dovuto provare. E per quel senso di colpa, di una colpa che non avevo, ma che mi portavo addosso, ho continuato a rispondergli. Cadendo in trappola.
Le minacce continuavano. Così come continuava a dirmi che avevo cancellato tutto. Non voleva proprio accettare la mia scelta.
Si presentava sotto casa e nei posti che frequentavo abitualmente. Chiedeva di me ai miei amici e conoscenti, alla mia famiglia.
Mi mandava fiori a casa e lettere d’amore, alternati a messaggi in cui mi urlava addosso.
Ho dovuto cambiare abitudini. Ho dovuto interrompere il lavoro dei miei sogni. Sono andata via, per un po’. Ho dovuto cancellare i miei profili sui social network. Ho dovuto tagliare i ponti con amici in comune, con persone importanti per me.
Mi aveva tolto parti importanti della vita. E io questo non lo accettavo, ma dovevo proteggermi.
Ormai è passato tanto tempo da quel periodo. Ho vissuto dei mesi davvero difficili. Non avrei mai pensato succedesse a me. Si leggono sui giornali queste storie, ma sembrano così lontane. Nessuno pensa che possa mai capitargli niente di simile.
Non posso dire di essere uscita dal tunnel buio in cui vivevo, perché penso non ne uscirò mai. Ma mi sono ripresa la mia vita, e ne ho le redini in mano.
Non mi sento più sola, come prima. Sentivo che nessuno mi capiva, né le mie sorelle, né gli amici. Dicevano che esageravo e che lui era una brava persona, così intelligente – e lo era, se no non mi sarei mai innamorata di lui. Ero io che sbagliavo. E a me questa cosa è pesata davvero. Mi sono sentita sola. E sentirsi soli, durante un periodo del genere, è l’ultima cosa di cui si ha bisogno.
Avere uno stalker ti cambia la vita.
Hai paura di uscire. Hai paura di qualsiasi rumore. Quando squilla il telefono ti blocchi e non riesci a rispondere, perché pensi sia lui dall’altro capo del telefono. Hai paura quando suona il citofono. Hai paura quando apri il portone di casa, temendo di trovarlo appostato appena esci. Hai paura ad andare nei tuoi bar e ristoranti preferiti.
Hai paura perché conosce benissimo le tue abitudini e può essere ovunque.
Ogni volta che vedevo qualcuno che potesse somigliargli o il suo modello di macchina il mio cuore iniziava a battere sempre più forte, per la paura.
Avevo cambiato strada per tornare a casa, e mi riaccompagnava sempre qualcuno.
Per una come me che ha sempre creduto nell’indipendenza e nell’emancipazione femminile era umiliante dover essere sempre accompagnata a casa. Era umiliante dover dire esattamente dove andavo e a che ore, per non far preoccupare nessuno.
Provavo umiliazione per la situazione in cui “mi ero cacciata” e provavo rabbia, per non poter vivere normalmente la mia vita. E provo ancora rabbia, per non poter più fare ciò che amavo.
Non bisogna cadere nel tranello: non bisogna mai rispondere al proprio stalker. Non bisogna sentirsi in colpa per l’ossessione che prova nei vostri confronti. Perché quello non è amore, è ossessione.
E soprattutto bisogna parlare. Con i propri amici, con la propria famiglia. Bisogna parlare e nei casi più estremi bisogna avere coraggio e rivolgersi alle Forze dell’Ordine. Bisogna collezionare prove di quello che vi sta facendo, perché ora c’è una legge che protegge le vittime di stalking.
Io quel coraggio non l’ho avuto. O meglio, lo ho avuto a metà. Sono andata a chiedere informazioni in Commissariato, per sapere cosa potevo fare, ma non ho avuto la forza di denunciarlo. Speravo tornasse in sé, o semplicemente temevo potesse succedermi di peggio, e già così, non sopportavo la situazione. Per fortuna, se sono qui a raccontare queste cose significa che il peggio è passato, e piano piano sto riprendendo le redini della mia quotidianità.
Ogni volta che esco dal portone mi guardo ancora attorno, spaurita. Ma almeno adesso, avendo raccontato, ho un po’ di coraggio in più.