Uno dei bombardamenti su Beit Lahia. Foto via X @QudsNen
Negli scorsi mesi dell’aggressione di Gaza da parte delle IDF si è stabilito un trend preciso: ogni volta che la comunità internazionale critica o fa richieste a Tel Aviv — critiche e richieste sempre senza denti e senza leve diplomatiche — nelle ore successive si registra una escalation della violenza e un aumento ulteriore delle uccisioni, prima solo a Gaza, ora sia a Gaza che in Libano. È successo di nuovo martedì, quando, nel contesto delle leggi per la messa al bando dell’UNRWA, l’esercito israeliano ha condotto una serie di attacchi particolarmente intensi su entrambi i territori. A Gaza le IDF hanno ucciso più di 143 persone, tra cui 132 nel nord della Striscia, dove continua senza sosta l’assedio da ormai 3 settimane. Come sempre, questi numeri sono drasticamente inferiori al reale, perché sotto le macerie restano intrappolati, e poi muoiono, un numero imprecisato di persone — persone che nel nord di Gaza ora non hanno nessuna speranza di essere soccorse, e nemmeno di avere i propri corpi esanimi recuperati, dato che non ci sono più ambulanze e ospedali pienamente funzionanti in tutta la zona. In Libano solo nel corso della giornata di martedì si sono susseguiti numerosi attacchi, e sono state uccise 77 persone.
Anche gli Stati Uniti hanno commentato sul numero sempre più alto di morti — in particolare a Beit Lahia, dove i bombardamenti israeliani continuano da diversi giorni. Il portavoce del dipartimento di Stato statunitense Matthew Miller, però, si è limitato a descrivere i bombardamenti come “un incidente orripilante con risultati orripilanti.” Miller ha ammesso che molti dei minorenni uccisi nei bombardamenti erano per definizione già sfollati — avevano cercato rifugio dopo essere scappati da bombardamenti precedenti: una condizione condivisa dalla quasi totalità della popolazione palestinese. Miller ha ripetuto anche le preoccupazioni di Washington per il mancato ingresso di aiuti umanitari nel nord di Gaza, menzionando la lettera di Blinken del 13 ottobre — in cui i funzionari statunitensi avevano dato al governo Netanyahu 30 giorni per permettere nuovamente l’ingresso di cibo e materiale sanitario nel nord di Gaza, a cui aveva fatto seguito, anche in quel caso, un’accelerazione della strage.
Parlando al Middle East Summit, un summit organizzato a Gerusalemme da Israel 365, una piattaforma di ebrei ortodossi rivolta al pubblico cristiano — principalmente statunitense — il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha chiarito nuovamente le vere intenzioni dell’estrema destra israeliana: la completa pulizia etnica della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. “Dove non c’è nessuna presenza civile, non c’è nessuna presenza militare di lunga durata, non c’è sicurezza e c’è una minaccia esistenziale allo stato di Israele.” Smotrich sostiene che sia necessario “stabilire nuove città e colonie” anche in Cisgiordania, e che ai palestinesi possano rimanere solo sacche di autogoverno che però siano “prive di caratteristiche nazionali.” “Chi non vuole o non riesce a mettere da parte le proprie ambizioni riceverà assistenza da parte nostra per emigrare in uno dei tanti paesi arabi dove gli arabi possono realizzare le loro ambizioni nazionali, o verso qualsiasi altra destinazione al mondo.” Parlando allo stesso convegno, Gideon Sa’ar, fuoriuscito dal Likud ma recentemente entrato nella coalizione di governo all’interno della propria sigla Nuova Speranza, ha detto espressamente che “non ci sarà mai un’alternativa al pieno controllo operativo dell’esercito israeliano del territorio dal mare al Giordano.”