in copertina, foto via Facebook / Luigi Di Maio
Luigi Di Maio è uscito dal Movimento 5 Stelle, aprendo una crisi politica in nome della stabilità di governo. Ma cambierà davvero qualcosa per il panorama complessivo della politica italiana?
Anche se l’uscita di Luigi Di Maio dal M5S era qualcosa che nel partito si temeva da parecchio tempo, e la crisi interna fosse sotto gli occhi di tutti, la scissione, annunciata bruscamente, ha continuato ad agitare la politica per tutta la giornata. Da parte del Movimento 5 Stelle le reazioni sono state di varia intensità: c’è chi non nasconde la propria frustrazione, come Roberto Fico, che ha dichiarato che “la scissione è un’operazione di potere e non politica, che è una cosa diversa,” aggiungendo che ora nel M5S “siamo più forti di prima,” nonostante la riduzione marcata di numeri in Parlamento. È stata più conciliante Chiara Appendino, che ha parlato di “una scelta che non condivido assolutamente, ma che non cancella quanto fatto e vissuto insieme in tutti questi anni.” Per sentire una presa di posizione ragionata da parte di Giuseppe Conte si è dovuto aspettare sera, durante un’intervista a Otto e mezzo su La7. Il leader del M5S ha messo le mani avanti: “Non chiederò le dimissioni di Di Maio,” ma, ha aggiunto, “lascerei che si interroghi con la propria coscienza e decida.” Conte dice di non aver capito quale sia il progetto politico di Di Maio: un’accusa velata al fatto che la pretesa della difesa dell’atlantismo sia una foglia di fico davanti alla vera necessità — costruire una struttura che permetta a Di Maio di presentarsi come leader, e bypassare il limite dei due mandati. La scelta di rompere proprio sull’atlantismo è uno snodo rilevante nell’evoluzione di Di Maio e dei dimaiani — tra i fuoriusciti c’è anche Manlio Di Stefano, che negli ultimi mesi aveva compiuto una vera e propria metamorfosi rispetto alle proprie simpatie putiniane degli anni scorsi.
La questione del superamento del limite dei due mandati non è ovviamente un caso chiuso per Giuseppe Conte — resta una richiesta di tanti parlamentari rimasti nel Movimento, ma è anche uno dei pochi temi su cui fa sentire ancora la propria presenza Beppe Grillo. Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha cancellato il proprio viaggio a Roma e sta guardando come la crisi si consuma da lontano. I retroscena dicono che Grillo vede nel limite dei due mandati uno degli ultimi capisaldi dell’identità storica del M5S. Per chi è rimasto nel Movimento e spera ancora in un rilassamento della misura, in realtà, ci potrebbe essere da sperare, perché il cambio di statuto potrebbe essere più facile ora che non è più necessario specificamente per salvare il futuro di uno dei leader del partito. Su Twitter una parte della base del Movimento si è scagliata contro Di Maio, usando l’hashtag #traditore, e riesumando sue vecchie prese di posizione rigoriste in merito ai parlamentari “voltagabbana,” che facevano “cambio di casacca.”
Ma cosa cambia negli orizzonti della futura coalizione elettorale che doveva comprendere Pd e M5S? Ne ha parlato Enrico Letta a Porta a Porta, dicendosi “abbastanza sereno,” perché la scissione “diciamo che non ha colto di sorpresa.” Letta ha svicolato sulle posizioni rispetto ai due potenziali alleati, commentando che “ci si domanda nel Pd chi è più vicino a Conte e chi a Di Maio. Nel Pd si è più vicini al Pd. E il Pd reagisce assumendosi la responsabilità di essere ancora più forte e produttivo.” Durante la trasmissione Letta ha dichiarato di aver chiesto ai due leader di rimanere uniti, ma di essere evidentemente rimasto inascoltato. Dall’opposizione, Meloni non si è trattenuta dal sottolineare che, secondo lei, non si è mai vista “una scissione di partito per continuare a stare nello stesso governo a votare gli stessi atti” — una dichiarazione che però dimentica l’esperienza di Gianfranco Fini e degli strani primi mesi di Futuro e Libertà per l’Italia, dentro un governo da cui il suo leader era stato praticamente cacciato.