Attese lunghissime, ricoveri a centinaia di chilometri da casa, quasi nessuna diagnosi precoce o pediatrica: lo Stato finalmente riconosce i DCA tra i Livelli essenziali di assistenza, ma non è abbastanza: mancano le cure gratuite e universali.
La giornata del fiocchetto lilla è stata introdotta dieci anni fa dall’associazione Mi nutro di vita. La data – il 15 marzo – cade nell’anniversario della scomparsa della figlia del presidente dell’associazione Stefano Tavilla, morta per complicazioni dovute alla bulimia, poco prima di essere ricoverata. La giornata ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui disturbi del comportamento alimentare (DCA), che sono la seconda causa di morte tra le adolescenti — una crisi che si è ulteriormente aggravata durante la pandemia.
Nell’ultimo anno molto è cambiato: il movimento lilla — tutte le persone e le associazioni che lottano perché lo stato si faccia seriamente carico della cura dei DCA — ha raggiunto un grande traguardo. Dopo la manifestazione dello scorso 8 ottobre, la commissione per la legge di bilancio del 2022 ha approvato un emendamento che sancisce l’inserimento dei DCA nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e stanzia 25 milioni di fondi per il periodo 2022-2023.
Ne abbiamo parlato con Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoterapeuta specializzato nella cura dei DCA e direttore del reparto di riabilitazione DCA nel centro di Piancavallo, e Teresa e Giovanni*, due ragazzi che soffrono di anoressia e bulimia. Prima dell’emendamento alla legge di bilancio erano già stati presentati vari disegni di legge per aumentare l’impegno del servizio sanitario nazionale nella cura e sensibilizzazione dei DCA, ma mai portati a termine. “Quello che è cambiato,” secondo Mendolicchio, “è che ormai l’emergenza è sotto gli occhi di tutti. Credo che il grande spauracchio del Covid-19 abbia fatto intendere a chi governa che è necessario occuparsi dei fenomeni che riguardano la salute di massa.”
Come mostra la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SisDCA), infatti, con la pandemia i casi di DCA sono aumentati del 30% e le richieste di prima visita del 50%. L’emendamento alla legge di bilancio 2022 ha esteso le prestazioni Lea dei disturbi alimentari che saranno così individuati al di fuori del capitolo della “salute mentale.”
(in questo articolo ne parliamo in dettaglio)
“I disturbi alimentari sono appunto un fenomeno che riguarda la salute di massa e gli adolescenti, per cui, mentre prima la sensibilità politica era di un certo tipo, la lezione del Covid unita all’aumento dell’impatto di questi disturbi ha rotto gli indugi,” continua Mendolicchio, “finalmente questo governo ha recepito questa esigenza e grazie a una sensibilità bipartisan siamo riusciti a ottenere questo stanziamento e i riferimenti legislativi nella legge di bilancio.” L’emendamento alla legge di bilancio ha esteso le prestazioni Lea dei disturbi alimentari che saranno così individuati al di fuori del capitolo della “salute mentale.” Lo stato metterà a disposizione un budget autonomo, separato da quello per le patologie psichiatriche, per i disturbi alimentari. Questo, insieme ai fondi stanziati per il biennio 2022-2023, permetterà di fornire ai cittadini che ne hanno bisogno prestazioni e servizi gratuiti o mediante pagamento di ticket. In più, ogni regione dovrà dotarsi di servizi specializzati per la cura dei DCA, come ambulatori, reparti e centri. Sembra scontato, ma non lo è. La diffusione dei centri e reparti specializzati per i disturbi del comportamento alimentare in Italia è infatti eterogenea, con un’asimmetria soprattutto tra Nord e Sud.
La mappatura condotta dal progetto MA.NU.AL del ministero della Salute mostra come, al 31 dicembre 2021, dei 91 centri dedicati alla cura dei DCA 48 si trovano al Nord, 14 al Centro e solo 29 tra Sud e isole. Molti ragazzi finiscono per essere ricoverati a centinaia, se non migliaia, di chilometri dai propri genitori. “Purtroppo l’assistenza in Italia è ancora a macchia di leopardo. Ci sono regioni con delle differenze enormi, per cui la cosa più importante è rendere il più possibile omogenea l’offerta assistenziale primaria sui disturbi alimentari,” commenta Mendolicchio, “questo lo si può raggiungere facendo in modo che le regioni possano essere in contatto col governo e possano in qualche modo allinearsi rispetto alle esigenze che il governo ha reputato fondamentali, ovvero garantire dei livelli essenziali di assistenza e fare in modo che le persone possano avere il minimo indispensabile per la cura e diagnosi dei disturbi alimentari. Se dipendesse da me suggerirei una commissione permanente nella commissione stato-regioni che possa gestire i soldi stanziati dal governo e come le regioni poi devono spenderli su questo tema. Però ora la priorità è rendere omogenea l’assistenza in tutto il territorio nazionale.”
in Italia sono circa 3 milioni i soggetti affetti da DCA, con 8.500 nuovi casi all’anno. Di questi, il 95,9% sono donne, ma negli ultimi anni sono aumentati i casi anche tra la popolazione maschile con i casi di anoressia e vigoressia – l’ossessione per il corpo muscoloso e perfetto.
Raccontiamo le storie di Teresa e Giovanni
I disturbi alimentari sono una grande piaga sanitaria del nostro paese. Come stimato dal ministero della Salute, in Italia sono circa 3 milioni i soggetti affetti da DCA, con 8.500 nuovi casi all’anno. Di questi, il 95,9% sono donne, ma negli ultimi anni sono aumentati i casi anche tra la popolazione maschile. Giovanni è un ragazzo pugliese di 20 anni e soffre di anoressia e bulimia. Nella sua esperienza ha visto che “si parla poco dei ragazzi che soffrono di disturbi alimentari, soprattutto di anoressia o di vigoressia. Si tratta di una forma di anoressia che riguarda principalmente gli uomini: è l’ossessione per un corpo estremamente definito e muscoloso, e quindi per un’alimentazione super sana, niente ‘sgarri’ – niente che secondo la tua sfera mentale non sia sano. Anche perché sempre di più nella società di oggi anche noi uomini veniamo bombardati da corpi perfetti, muscolosi, senza peli, senza imperfezioni. Non puoi comprarti un paio di mutande senza vedere un corpo muscoloso. Così ti chiedi, ‘perché il mio corpo non è così?’”
È pesante come esperienza perché vedi tanta sofferenza, capisci che nessuno può entrare nella vita di qualcuno e avere la presunzione o comunque avere la capacità di salvare quella persona. Non è più una questione di mangiare o non mangiare, camminare o non camminare, vomitare o non vomitare, contare le calorie o non contare le calorie: è vivere o morire, scegli di vivere o di morire.
Giovanni definisce il suo percorso di cura “travagliato,” come è stato per tanti altri pazienti: ha fatto “molti salti da un posto all’altro, da uno specialista a un altro.” La sua famiglia si è inizialmente rivolta a un nutrizionista. “Mi ha dato una dieta con le calorie che mi faceva solo fissare di più, sostanzialmente. Infatti dopo neanche due settimane l’ho mollata. Mi sono reso conto di aver bisogno di un altro tipo di aiuto. Inizialmente anch’io credevo che mi sarebbe bastata una dieta per risolvere tutti i miei problemi. Non era così assolutamente, perché comunque veniva trascurato tutto il lato psicologico.”
Giovanni si è così rivolto alla sanità pubblica, che ha però dei tempi di attesa molto lunghi. “Sono riuscito a essere, “visitato”, ad avere la prima visita per disturbi alimentari, intorno al 15 gennaio 2020, quando avevamo fatto richiesta comunque a fine novembre, inizio dicembre. Quindi comunque ti danno le tempistiche di un mese, un mese e mezzo, anche due mesi, e tu nel mentre stai là, così, ad aspettare non sai che cosa.” Con la pandemia, però, il supporto medico si è ridotto a telefonate settimanali con lo psichiatra. La malattia è peggiorata quando Giovanni si è poi trasferito a Milano da solo per l’università, convinto di stare meglio.
Dopo due mesi, le sue condizioni sono peggiorate. Ha iniziato così a essere seguito da un centro privato, in cui indagava con la psicologa su tutta la sua vita, sul rapporto con la sua omosessualità e il mancato coming-out alla famiglia. Col supporto della psicologa è riuscito a parlarne con i propri genitori e migliorare il rapporto con loro. A marzo 2021, con la famiglia e i suoi amici, si è però reso conto che era il caso di farsi ricoverare. “A fine aprile sono stato ricoverato a Piancavallo, che è appunto un centro pubblico dell’Auxologico in provincia di Verbania. Io ho fatto domanda a inizio marzo, inizialmente sarei stato ricoverato a maggio, però poi ho ottenuto l’urgenza e mi hanno ricoverato a fine aprile. È pesante come esperienza perché vedi tanta sofferenza, capisci che nessuno può entrare nella vita di qualcuno e avere la presunzione o comunque avere la capacità di salvare quella persona. Quindi mi rendo conto che solo io sono l’artefice della mia guarigione. Non è più una questione di mangiare o non mangiare, camminare o non camminare, vomitare o non vomitare, contare le calorie o non contare le calorie: è vivere o morire, scegli di vivere o di morire.”
Anche Teresa, 21 anni, è reduce da un percorso difficile e segmentato dall’anoressia.
“Ero già seguita da una psicologa da 4 anni e quindi appena ho iniziato ad avere problemi ne ho parlato con lei, però ci sono voluti nove mesi prima che mi dicesse che era il caso di rivolgermi a una nutrizionista. E quindi mi ha mandato da una sua collega dietista, che però non era specializzata in DCA. Io non sapevo proprio niente, neanche i miei genitori. All’inizio mi ha dato un piano, ma io non mi trovavo bene, non facevo passi avanti, anzi facevo passi indietro. Nel frattempo ho iniziato a vedere uno psichiatra, però non ero seguita da un’equipe e non ero presa in carico — ovviamente tutto questo nel privato. Ero seguita dalla psicologa e dalla dietista che parlavano tra di loro e poi dallo psichiatra a parte. Ero io che dovevo mandare i referti dall’uno all’altra e contattare il mio medico di base quando dovevo avere i farmaci prescritti dallo psichiatra. Era veramente faticoso e non era per niente funzionale.” Teresa ha poi iniziato ad andare da una dietologa dell’Auxologico, che l’ha subito messa in lista d’attesa per uno dei pochi centri pubblici, a Piancavallo.
Teresa è stata fortunata: di solito i tempi d’attesa per un ricovero sono lunghissimi, ma il centro di Verbania era appena stato aperto. “Dopo aver saputo che c’era posto, il 17 marzo mi hanno richiamato dicendomi che sarei entrata la settimana successiva. Sono stata ricoverata lì più di due mesi a carico del servizio sanitario nazionale, quindi tutto gratuito. Lì mi sono trovata molto bene, mi sono resa conto di come fosse essere seguita davvero, da specialisti, perché quello fa veramente la differenza. In quel periodo il reparto era ancora molto piccolo e tutta l’equipe era specializzata in disturbi alimentari.”
Una grave criticità della gestione dei DCA da parte del servizio sanitario nazionale è infatti la mancata specializzazione dei medici. “Io sono stato seguito dal pubblico anche recentemente e la mia quinta psichiatra mi diceva ‘eh però io di DCA non ne so niente.’ Capito?” evidenzia Giovanni, “è come un tatuatore. Un tatuatore per essere bravo si deve specializzare in uno stile, sia old-school, geometrico, dotwork. Così uno psichiatra, uno psicologo devono essere specializzati nei disturbi alimentari, perché sennò non capisci, non sei in grado di andare nello specifico.” Le stesse problematiche si riflettono quando i pazienti vengono ricoverati nei reparti di psichiatria. Questo perché, prima di ottenere una propria specificità nei Lea lo scorso dicembre, i disturbi alimentari erano inclusi nella salute mentale. I pazienti hanno sì bisogno di essere seguiti da psichiatra e psicologo nel percorso di guarigione, ma non è abbastanza. I DCA hanno una loro specificità che non va trascurata. Se da un lato queste malattie partono da un disagio psicologico, al contempo si sintomatizzano soprattutto a livello fisiologico — e per questo richiedono un’attenzione da parte di un’equipe medica trasversale. Ce lo spiega Mendolicchio: “I disturbi alimentari hanno delle loro peculiarità assistenziali. Le faccio un esempio: un paziente che ha un disturbo depressivo deve godere di alcune prestazioni che però non riguardano ad esempio necessariamente accertamenti diagnostici legati al corpo. Una ragazza che soffre di anoressia e bulimia deve poter avere delle prestazioni che riguardano la salute mentale, ma anche appunto tutta una serie di accertamenti, di analisi e indagini che riguardano la parte endocrinologica e metabolica. Questo rende il disturbo alimentare un disturbo complesso, che deve prevedere una sua dignità specifica dal punto di vista diagnostico-assistenziale.”
Negli ultimi anni sono nati centri specializzati nella cura dei DCA, ma la maggior parte rimangono privati. La rete di specialisti che si sta creando rappresenta sicuramente un passo in avanti, ma non riesce a coprire la domanda della fetta di popolazione che non può permettersi di rivolgersi al privato. “Quando sono stata dimessa,” racconta Teresa, “il problema era cosa fare dopo, non volevo tornare nella situazione in cui non ero seguita prima di andare a Piancavallo. Al centro mi hanno detto di scordarmi il pubblico: le liste d’attesa sono di 9 mesi. Privato sì, c’è ambulatoriale, day hospital, diverse opzioni. Quindi uscita da lì la cosa buona almeno è che sapevo cosa cercare, ma l’opzione era sempre il privato. Poi per fortuna sono stata indirizzata all’auxologico al San Luca, dove c’è un’equipe che ti segue, ci sono visite ogni mese con dietista, psichiatra ed endocrinologa. Mi trovo veramente bene, è un vero lavoro di rete, però è a pagamento. L’auxologico ha dei servizi pubblici, ma queste prestazioni sono a pagamento. La tripla visita costa 170/180 euro, che comunque, sì, potrebbe costare molto di più, ma c’è comunque magari chi non potrebbe permettersi neanche questo.”
Oltre ai medici di base, anche i pediatri dovrebbero essere più informati, perché ormai c’è gente sempre più giovane con DCA. Con la pandemia, infatti, la SisDCA ha notato un calo dell’età media di coloro che soffrono di disturbi alimentari, scesa a 12 anni.
Come evidenziato dalla Fondazione Umberto Veronesi, è fondamentale intervenire presto, prima che la malattia porti a danni fisici permanenti, che, nei casi più severi, possono condurre alla morte. Una presa in carico precoce ridurrebbe anche i tempi di guarigione e aumenterebbe l’efficacia dei percorsi di cura. Lo sostiene anche Mendolicchio: “Bisogna prevedere che ogni Asl strutturi un percorso ambulatoriale, utile per la diagnosi precoce per iniziare i trattamenti. L’ambulatorio dovrebbe capire eventualmente quali sono i bisogni di cura e, rispetto a quello che è presente sul territorio regionale o nazionale, inviare i pazienti in modo corretto. Questo sarebbe un grande passaggio perché consentirebbe a tutto il territorio di avere quel livello di assistenza primaria che permette la diagnosi precoce e l’inizio del trattamento migliore possibile. Questo avrebbe come conseguenza minori tempi di cura e maggior efficacia dei trattamenti.”
Allo stesso tempo c’è bisogno di un maggiore coinvolgimento dei medici di base e dei pediatri, perché, come ci dice Teresa, “in generale il medico di base è il primo contatto. Per questo dovrebbe avere gli strumenti per sospettare un disturbo del genere e poi indirizzare un paziente a un centro specializzato. però questi centri devono esistere e devono essere accessibili a tutti gratuitamente. Oltre ai medici di base, anche i pediatri dovrebbero essere più informati, perché ormai c’è gente sempre più giovane con DCA.” Con la pandemia, infatti, la SisDCA ha notato un calo dell’età media di coloro che soffrono di disturbi alimentari, scesa a 12 anni.
La sensibilizzazione e la prevenzione assumono così un ruolo centrale al fine di contenere il fenomeno. Molte famiglie, come quelle di Teresa e Giovanni, non sanno bene come muoversi inizialmente, a che specialista rivolgersi. “Bisognerebbe fare più sensibilizzazione e prevenzione perché se ne sa troppo poco rispetto a quanto sono diffusi adesso,” spiega Teresa, “riguardo alla prevenzione e all’informazione in generale secondo me si sta andando verso ladirezione giusta, perché se ne sta parlando sempre di più ed è impossibile non parlarne vista l’incidenza ultimamente.” Sui social media, medici, ex-pazienti e associazioni stanno svolgendo un gran lavoro di informazione. Tra questi c’è Maruska Albertazzi, giornalista ed ex-paziente di DCA, che in un’intervista ad ottobre ci spiegava come siano spesso le associazioni in prima linea a indirizzare le famiglie disorientate. Le ragazze di Peso Positivo riescono invece a connettersi con i loro coetanei, parlando del proprio vissuto, e cercando di mostrare la complessità dei disturbi, ma anche l’unicità di ogni caso. I loro incontri nelle scuole offrono un grande modello di sensibilizzazione, in un luogo dove dei DCA non si parla proprio.
Teresa spera che con l’inserimento nei Lea i disturbi alimentari vengano presi sul serio e trattati senza sottovalutare la loro gravità. “Il nome disturbi, ok, va bene, però sono delle malattie. Agli occhi di chi non lo sa, questo nome alleggerisce il problema. Non mi piace utilizzare troppo il termine malattia, però solo quando ne parlo io, perché poi non voglio identificarmi nel termine. Per chi è fuori, invece, i nomi disturbi e malattia hanno un impatto diverso. Non diresti mai che il diabete è un disturbo: è una malattia. Come chi ha il diabete viene seguito e monitorato costantemente, allo stesso tempo se uno ha una malattia del comportamento alimentare, deve poter accedere alle cure. Non si dovrebbe arrivare a uno dei due estremi o al logoramento del corpo per poter accedere alle cure.”
tutte le foto nell’articolo su concessione di Maruska Albertazzi
*nomi di fantasia
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