Questo post contiene spoiler per il finale di Squid Game
Squid Game è un k–drama ultraviolento, famoso grazie al grande potenziale memetico. Ma il suo punto di forza è la riflessione sulla società sudcoreana, dove lo stadio terminale del capitalismo è particolarmente avanzato
Squid Game è un grande momento di svolta per Netflix: da anni il servizio di streaming sta investendo tantissimo in produzioni internazionali per ridurre la propria dipendenza da Hollywood e dare più varietà al suo catalogo. È una strategia che si è dimostrata molto efficace: l’azienda vanta ormai diversi successi nati fuori dagli Stati Uniti — Narcos, Dark, La Casa de Papel, Elite, Lupin sono forse quelli che hanno avuto un impatto maggiore, tuttavia, il successo quelle serie non era stato totale come la conquista di pubblico internazionale della serie sudcoreana, che è diventata nel giro di dieci giorni da una serie poco promossa fuori dai mercati asiatici a una macchina di meme incessante, sulla via di diventare la serie Netflix più guardata di sempre.
Il potenziale memetico di Squid Game — provate a sfuggire dalla serie su TikTok, è impossibile — è sicuramente uno degli aspetti che ne hanno garantito il successo sul mercato mondiale, ma in realtà la serie ha superato l’invalicabile barriera alta due centimetri dei sottotitoli grazie a due fattori shock: il primo, senza ombra di dubbio, è la violenza, ma il secondo è quello culturale, ovvero la lente attraverso cui la televisione e il cinema sudcoreani parlano di società e capitalismo.
@breezytyty How I would cheat if I was In The Squid Game 😂 (Credit: @Tyree Smitty Smith) #thesquidgame #breezytyty #redlightgreenlight ♬ original sound – Ty Dior
Di nuovo: qui sotto iniziano gli spoiler — proseguite solo se avete già visto la serie oppure se non vi disturba sapere in anticipo dettagli sulla trama
Un meccanismo su cui Squid Game, invece, non fa mai affidamento è quello del colpo di scena, in particolare come inteso dalla narrativa serializzata occidentale dell’ultimo decennio. L’unico vero colpo di scena della serie — l’identità del creatore del Gioco a cui il protagonista è sopravvissuto — è necessario solo per avere una leva emotiva con cui l’autore della serie, Hwang Dong-hyuk, spiega la propria tesi di fondo. Per il resto, la storia si sviluppa con una linearità quasi fatalista: ovviamente tutti i giocatori, tranne il nostro protagonista, devono morire, non importa quanto ci siamo affezionati; ovviamente l’avventura del poliziotto Hwang Jun-ho finisce male; ovviamente i giochi stanno continuando anche dopo la vittoria del nostro protagonista.
Quello di Hwang, però, non è fatalismo, e il finale della serie, con Gi-hun pronto a cercare di fermare gli organizzatori del Gioco, non è una negazione di quello che è stato detto fino a quel momento — e non è nemmeno un teaser per la seconda stagione, che magari si farà visto il successo planetario, ma originariamente non era prevista (le serie coreane sono molto spesso autoconclusive).
Il paragone naturale, per il pubblico occidentale, è ovviamente Parasite di Bong Joon-ho: come il film premio Oscar, Squid Game è una critica del capitalismo molto più ragionata di quanto potrebbe sembrare — considerato che uno degli oggetti scenici è letteralmente un enorme salvadanaio. La serie, specificamente, analizza una serie di tematiche fondamentali attorno ad una più ampia critica al capitalismo.
Sopravvivere in una società capitalistica rende disumani. Questa è senza dubbio la tesi di fondo, resa esplicita quando dopo essere tornati alla propria vita regolare — di enormi, ma ordinarie difficoltà — così tanti personaggi decidono di tornare a rischiare la vita nel Gioco. Dover ripagare i propri debiti, dover tornare a cercare un lavoro, dover affrontare i propri crimini — sono tutti scenari che sono peggiori di rischiare di essere uccisi a colpi d’arma da fuoco. È una decisione estrema, ma che la serie presenta come ovvia di fronte alle difficoltà dei protagonisti. Un gioco in cui più di 400 persone devono essere uccise per rendere ricco un solo vincitore è comunque un sistema più equo, più giusto, del mondo reale.
L’egoismo non è inerente alla natura umana, ma un costrutto come il capitalismo. Nella serie di giochi a cui i partecipanti sono costretti a sottoporsi, prima devono organizzarsi in squadre di dieci, dimostrando di essere capaci di collaborare in una versione perversa del tiro alla fune. Nella sfida successiva, ai giocatori è chiesto di diversi in gruppi di due. I giocatori tornano a dividersi tra persone fidate — hanno appena completato una sfida in cui era necessario gioco di squadra — solo per scoprire pochi momenti dopo che dovranno giocare uno contro l’altro e non in coppia. Un giocatore per coppia dovrà morire. La metafora non potrebbe essere più diretta: le persone, quando viene chiesto loro di mettersi in coppia, cercano qualcuno su cui fare affidamento, ed è solo il sistema — il Gioco — che li forza ad andare uno contro l’altro, perché solo chi vince sopravvive — in questo caso letteralmente. È l’arco narrativo di Cho Sang-woo, che ci viene presentato come vittima del sistema di cui ha preso parte e che diventa gradualmente da personaggio tragico a vero e proprio antagonista.
L’impossibilità di fare la rivoluzione contro un sistema così forte. Squid Game è più Battle Royale che Hunger Games: non c’è una resistenza ai margini della vicenda che diventa uno degli aspetti principali della trama; i giocatori non riescono a organizzarsi e prendere le armi contro gli oppressori che fanno rispettare le regole. Al contrario, gli esecutori del gioco sono una forza inesorabile: i giocatori sono sotto controllo costante, nelle parti successive del gioco anche in condizioni di inferiorità numerica schiacciante. In realtà, ai personaggi non viene nemmeno mai in mente di ribellarsi all’oppressione del gioco, così come non è mai presa in considerazione la possibilità che il premio non verrà effettivamente consegnato. Il sistema è totale e totalmente oppressivo, e l’unica speranza è quella di conservare la propria decenza — come fa Gi-hun — nonostante la situazione sia estrema.
In un’intervista alla rivista di cinema coreana Cine21, Hwang Dong-hyuk rivela di aver sviluppato l’idea per Squid Game già nel 2008, ma di non essere mai riuscito a venderla perché la storia sembrava troppo brutale, troppo eccessiva per essere messa in scena. Hwang fin da allora rivendicava uno dei pregi della serie, la capacità di creare vignette realistiche, di vita quotidiana — anche quando grottesche. Undici anni dopo, Netflix ha raccolto lo script: il mondo attorno a Squid Game era diventato così più eccessivo e grottesco che ora la serie era digeribile, non solo in Corea del Sud ma anche per un pubblico internazionale.
Al netto della violenza estrema, vale la pena di guardare ai pregi di Squid Game, che sono altrove, e si rifanno all’alveo di quello che l’industria della tv sudcoreana sa fare meglio di qualsiasi altra filiera: ritratti intimi, momenti di quotidianità slice of life semplici, valorizzati da storie che sanno dare importanza anche alle azioni più insignificanti. Il commentario al capitalismo, all’oppressione dei più poveri, alle difficoltà di trovare lavoro sono un altro carattere che unisce quasi tutta la narrativa televisiva sudcoreana: forse il paese ricco in cui il capitalismo è nel suo stadio terminale più avanzato di tutto il mondo, è impossibile raccontare la vita delle persone sudcoreane senza parlare di megacorporation, delle poche famiglie che controllano una parte enorme dell’economia del paese, del crescente impatto della gentrificazione.
Se sono queste tematiche, più che l’ultraviolenza, che vi hanno intrigato di Squid Game, abbiamo per voi una buona notizia: avete di fronte a voi ore e ore di contenuto prodotto in Corea del Sud che affronta, da punti di vista sempre diversi come il capitalismo distrugga la vita delle persone. In ordine sparso, ve ne consigliamo quattro:
- Mine è un kdrama diretto da Lee Na-jung che si incastra tra Parasite e Beautiful (la soap) — è una intensa saga familiare che è interamente girata come se fosse un thriller, e in effetti il morto c’è. Sullo sfondo, gli autori fanno una critica acuta della plutocrazia coreana, rimbalzando con capacità magistrale tra il comico e il drammatico. In Italia è disponibile su Netflix.
- At Eighteen fa un commento acuto e spesso tranchant di come la società sudcoreana rende la vita dolorosissima per gli adolescenti: dal pregiudizio nei confronti delle persone LGBTQ al classismo, la serie sviluppa una premessa, quella del teen drama, e la porta alle proprie conseguenze naturali: com’è vivere in un mondo che è stato modellato dai pregiudizi di chi è al potere. A livello internazionale è su Viki, il servizio di streaming statunitense dedicato alla televisione asiatica, ed è disponibile in streaming gratuito.
Una caratteristica centrale della televisione sudcoreana è proprio quella di saper fondere codici diversi, alternando argomenti impegnati e scene drammatiche anche in serie che sono altrimenti più leggere. Se avete bisogno di qualcosa per pulirvi il palato dopo Squid Game, queste ultime due serie sono particolarmente adatte:
- La premessa di Cheese in the Trap non potrebbe essere più semplice: è una storia romantica ambientata all’università, che diventa rapidamente un triangolo. Due dei vertici sono la protagonista, Hong Seol, di famiglia povera, e uno strano ragazzo, inquietante, manipolatore ma di buon cuore (?) che però è anche erede di una multinazionale. La storia procede senza mai andare nella direzione che il pubblico di una serie romantica potrebbe aspettarsi, e ha un finale che fa ancora parlare, cinque anni dopo la prima messa in onda. È in streaming gratuito su Viki.
- Search: WWW è un’altra serie leggera, ma che affronta temi complessi, senza minimizzarli, dipingendo un quadro gelido del settore tech sudcoreano, e commentando anche su temi di strettissima attualità, come la crescente polarizzazione dell’opinione pubblica e l’effetto delle decisioni di mercato delle grandi aziende sul tessuto sociale di un paese. È in streaming gratuito su Viki.
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