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in copertina, foto di Enrico Michetti, via Facebook

L’astensionismo record alle elezioni amministrative ha penalizzato soprattutto i partiti di destra, che hanno presentato candidati poco convincenti e si sono mostrati confusi e divisi. Ma il Pd non ha molto da festeggiare

I risultati delle elezioni amministrative hanno confermato i sondaggi e le anticipazioni: il centrosinistra ha ottenuto vittorie nette soprattutto nelle grandi città, strappando alla destra già al primo turno Milano, Napoli e Bologna, mentre Torino, Roma e Trieste andranno al ballottaggio. In alcuni casi si tratta di un risultato storico: a Milano, ad esempio, è la prima volta che un sindaco di centrosinistra vince al primo turno da quando esiste questo sistema elettorale; a Napoli, il candidato unitario sostenuto da Pd e M5S, Gaetano Manfredi, ha praticamente triplicato i voti dello sfidante Catello Maresca. Anche a Bologna Matteo Lepore ha vinto superando il 60%. A livello nazionale, il Pd si attesta come primo partito, mentre Fratelli d’Italia va verso il sorpasso della Lega, con percentuali tra il 17 e il 19%.

Letta — che è stato eletto a Siena con un ampio vantaggio sull’avversario — si è mostrato entusiasta: “Siamo tornati in sintonia con il paese,” ha commentato a caldo. “Non basterà la responsabilità e la consapevolezza perché i problemi emergeranno. Il Pd deve tenere insieme diritti, lavoro e rispetto dell’ambiente.”

La partita è ancora aperta soprattutto a Roma, dove Michetti è in lieve vantaggio su Gualtieri. Al ballottaggio della capitale sono sospese le ultime speranze dei partiti di destra: Meloni e Salvini hanno detto che la partita a Roma è ancora aperta, pur ammettendo la sostanziale sconfitta nelle altre grandi città: “Abbiamo perso per demeriti nostri,” ha commentato Salvini.

Per la destra l’unico risultato di rilievo è la vittoria alle regionali in Calabria, dove Forza Italia ha registrato un exploit a spese degli alleati di coalizione — il nuovo governatore è quindi Roberto Occhiuto. Il tracollo del Movimento 5 Stelle è ancora più evidente, ridotto a trovare consolatoria la sconfitta sonora ma tutto sommato dignitosa di Raggi: a Torino, dove pure c’era una sindaca uscente del partito, il partito non sembra essere riuscito a raggiungere il 10%.

Oltre al crollo della destra nei grandi centri, però, il dato più omogeneo e significativo di queste elezioni amministrative è stato l’aumento dell’astensione — complessivamente hanno votato solo il 54,7% degli aventi diritto. L’affluenza alle urne nelle grandi città è stata la più bassa di sempre: a Milano hanno votato solo il 47,7% degli aventi diritto — nel 2016 era stata del 54,65% — e il dato è il più basso di tutti i comuni della provincia che sono andati al voto; anche a Roma hanno votato solo il 48,8% degli elettori.

 

Beppe Sala durante la campagna elettorale. Foto via Facebook

È interessante anche — e soprattutto — analizzare dove si è votato di più e di meno. Le percentuali di partecipazione più alte nelle grandi città si sono registrate nelle zone più abbienti, in particolare nei centri storici, e hanno premiato il centrosinistra: un dato che concorre a testimoniare l’arroccamento del Pd tra le classi urbane più agiate. Si può ormai dire che si sia definitivamente concluso il percorso del Pd verso il partito della competenza e del progressismo moderato, in grado di rivolgersi quasi esclusivamente agli elettori che desiderano soprattutto preservare lo status quo economico ma sono interessati a un programma di riforme sociali: il Pd è riuscito a trasformarsi nel partito di quella che viene definita “classe media” — impiegati di medio-alto livello, piccoli proprietari e piccoli borghesi che si sentono a disagio a votare la destra di Salvini e Meloni. Le parti più popolari dell’elettorato del partito, ancora presenti certo, rischiano di apparire come vestigiali, frutto di un’eredità politica che il Pd fatica a portare avanti.

La classe sociale meno abbiente, composta soprattutto da lavoratori dipendenti che vivono nelle periferie, ha deciso di non votare. Da qui si può ipotizzare una crisi di quella destra che è stata spesso definita “populista,” cosa che testimonierebbe soprattutto la disillusione sempre più grande di chi non è ricco, e che dopo aver provato a votare la destra di Meloni e Salvini non si sente sostanzialmente più rappresentata proprio da nessuno. Di fatto, gli elettori ricchi che da qualche hanno cominciato a votare Pd l’hanno fatto anche questa volta, mentre molti non ricchi hanno abbandonato il voto di protesta che alle europee del 2019 avevano destinato alla Lega: entrare nel governo Draghi per Salvini ha avuto un suo prezzo — così come, forse, l’ha avuto anche continuare a impostare la propria linea politica sulla pandemia sulle strizzate d’occhio allo scetticismo medico e vaccinale.

Se il fatto che una fetta rilevante delle classi lavoratrici delle periferie abbia deciso di non votare più a destra è indubbiamente positivo, bisogna sottolineare che questo dato non si è tradotto, ad esempio, in un aumento di voti per la sinistra “radicale:” La riconferma al primo turno di Beppe Sala ha messo in ombra i risultati degli altri candidati sindaco che hanno affollato questa campagna elettorale a Milano — complessivamente 13 per 28 liste. Spicca il flop di Gianluigi Paragone, fermo poco sotto al 3%, ma anche a sinistra di Sala le cose non vanno tanto bene: nessuna lista alla sinistra del sindaco entrerà in consiglio comunale — quella del candidato Gabriele Mariani, Milano in Comune, ha preso meno del 2%. Ancora peggio Potere al Popolo, che al momento in cui scriviamo potrebbe fermarsi sotto l’1% — Pap è andato malissimo anche a Bologna, dove si attesta intorno al 3%. Solo a Roma il Pci di Marco Rizzo ha festeggiato il 6% preso nel collegio di Primavalle alle suppletive.

Di fronte a un governo che fa gli interessi dei ricchi e che viene presentato come l’unico possibile, i poveri hanno deciso di conseguenza di non andare a votare. Il fatto che il Pd esulti però testimonia solo la distanza drammatica che lo separa dalla “pancia del paese,” e fa riflettere sul fatto che — nonostante a una prima occhiata possa sembrare che sia diminuita la percentuale di elettori di destra — in realtà il 50% di chi non è andato a votare è orfano di una proposta politica che tuteli gli interessi delle classi meno abbienti, dimenticate dal governo dei “migliori.” E questa proposta dev’essere in qualche modo diversa da quelle già esistenti, che non riescono in alcun modo a proporsi come tutele credibili degli interessi dei lavoratori.