in copertina, foto CC HSBC UK Press Office
Oggi è la Giornata Internazionale per le Donne e le Ragazze nella Scienza, istituita dall’ONU nel 2015 a causa della gravissima disparità di genere nei settori scientifici. Ma non è sempre stato così
Sulla rivista femminile Cosmopolitan nel numero di aprile 1967 viene pubblicato un breve articolo, intitolato “Computer Girls.” Il pezzo, scritto da Lois Mandel, parla di un tempo in cui il le opportunità di carriera per le donne nel settore della programmazione erano diffuse e comuni, visto che si trattava di un ambiente prevalentemente femminile.
L’immagine stereotipata del programmatore maschio, nerd e un po’ asociale non è sempre esistita. Anzi, ha iniziato a prendere piede solo dalla metà degli anni Ottanta, quando le opportunità di guadagno nel settore della programmazione hanno cominciato ad aumentare — e le lavoratrici impiegate hanno cominciato a diminuire drasticamente.
Eppure le donne erano state assunte come “computer umani” per decenni. La programmazione, infatti, era considerato un impiego noioso e ripetitivo: una perdita di tempo per matematici e ingegneri ma una professione perfetta per giovani ragazze istruite. Programmare, in fondo, richiedeva quelle che per gli stereotipi dell’epoca erano considerate capacità tipicamente “femminili:” pazienza, perseveranza e attenzione ai dettagli.
Le tracce del lavoro femminile nella programmazione e l’informatica possono essere fatte risalire fino dopo la guerra civile negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Molte donne, soprattutto vedove in cerca di lavoro, cominciarono ad essere assunte come computer umani da università e centri di ricerca, visto che gli uomini scarseggiavano e il lavoro femminile poteva essere pagato meno.
Durante la Prima Guerra mondiale le “donne computer” vennero impiegate nel settore della balistica per calcolare le traiettorie di missili e bombe. Negli anni Venti cominciarono ad essere assunte dalla American Telephone and Telegraph per occuparsi del potenziamento dei segnali tramite amplificatori a valvole, lavorando a stretto contatto con gli ingegneri elettrici della compagnia.
Ma fu solo negli anni Quaranta che il loro ruolo divenne fondamentale, tanto che cominciarono ad essere chiamate “kilogirls.” Un “kilogirl” di energia veniva equiparato a circa un centinaio di ore di programmazione e alla NACA — quella che sarebbe successivamente diventata la NASA — molti ingegneri si resero conto che queste lavoratrici così sottovalutate erano in realtà in grado di programmare più velocemente e più precisamente di loro.
Questa scoperta, lungi dal far credere che uomini e donne potessero avere le stesse capacità intellettive, favorì invece l’idea che la programmazione fosse un lavoro essenzialmente femminile poiché richiedeva delle qualità che tutte le donne possedevano per natura — e gli uomini no. Non stupisce, allora, che la nota informatica Grace Hopper, intervistata da Cosmopolitan, parlasse così della programmazione: “È come pianificare una cena. Bisogna avere un piano e organizzare ogni cosa, affinché sia pronta quando ti serve. La programmazione richiede pazienza e abilità nel cogliere i dettagli. Le donne hanno un talento naturale come programmatrici.”
Storicamente dunque i pregiudizi avevano stabilito che programmare, così come in precedenza fare i conti, fosse “roba da donne.” Quando arrivarono i primi computer, sembrò quindi naturale mettere proprio delle donne ad operarli. È quello che avvenne ad esempio con l’ENIAC, il primo computer “digitale” al mondo, che fu impostato nel 1946 da 6 donne senza l’aiuto di nessun manuale di istruzioni: Kathleen Antonelli, Jean Bartik, Betty Holberton, Marlyn Meltzer, Frances Spence e Ruth Teitelbaum.
Ovviamente, in quanto donne, non apparvero mai negli eventi pubblici e non poterono mai ottenere delle promozioni lavorative — oltre al fatto che a Betty Holberton venne consigliato, dallo stesso professore di matematica con cui aveva collaborato, di tornare a fare la casalinga — ma favorirono la creazione dello stereotipo della “donna che programma.” Gestire il software, infatti, era considerato appannaggio femminile mentre gli uomini si occupavano dell’hardware, ritenuto più importante e più stimolante.
Com’è possibile, quindi, che un impiego considerato essenzialmente femminile si sia trasformato in un “lavoro da maschi”? Due sono probabilmente i motivi. Da un lato l’hardware cominciò a perdere importanza rispetto al software e il settore della programmazione iniziò a riempirsi di uomini, attratti dalle opportunità di guadagno che si stavano aprendo, escludendo dall’espansione del settore le loro controparti femminili. I programmatori maschi crearono delle associazioni professionali nelle quali le donne non erano incluse, cercando di disincentivarne l’assunzione, ad esempio accusandole di fare molti più errori di loro.
Negli anni successivi, la figura delle donne è stata relegata sempre più tra le seconde file, lasciando le loro storie solo nelle riviste specializzate e nella saggistica. È il caso di figure anche comunque celebrate, come Susan Kare, responsabile di tutte le icone del primo Macintosh e di Windows 3.0 — una donna che di fatto ha inventato le metafore con cui avrebbero comunicato i computer per i vent’anni successivi, mentre il mondo dibatteva della presunta rivalità tra Steve Jobs e Bill Gates — ma anche di donne il cui contributo è davvero solo riconosciuto nella letteratura specialistica, come Wendy Hall, parte della squadra che inventò l’ipertesto — per il quale normalmente viene creditato solo Tim Berners-Lee. Questa celebrazione dei “grandi uomini” dell’informatica, unita alla retorica del culto del carisma per i fondatori delle grandi aziende della Silicon Valley — la stessa retorica che oggi ci riempie i giornali con le disavventure di Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg — ha fatto sì che la professione diventasse di fatto prerogativa maschile.
L’aspetto socio-culturale fu perciò determinante per rendere l’ambiente dei programmatori prettamente maschile, contribuendo a far dimenticare il passato al femminile di questo settore sempre più fondamentale nella società odierna. Oggi le donne sono solo il 20% dei programmatori nel mondo, con picchi in Cina e India, e addirittura solo il 3% in Italia, dove le iscrizioni femminili nel settore informatico all’università sono il 17,7%. Le donne che riescono ad accedere alla professione inoltre sono spesso oggetto di gravi abusi fisici e psicologici. Più della metà delle donne impiegate nel settore STEM negli Stati Uniti è stata vittima di abusi sul posto di lavoro, e il settore è il secondo peggiore, dietro solo all’esercito.
Per creare un’inversione di tendenza e favorire l’interesse femminile per la programmazione — e in generale le materie STEM — è fondamentale impostare fin dall’infanzia un lavoro culturale contro gli stereotipi sociali e di genere. Se infatti alle elementari i due terzi dei bambini si dicono interessati alle scienze, man mano che l’età avanza il numero di femmine che dichiarano di apprezzare le materie STEM cala drasticamente. A contribuire a questa disaffezione sono prima di tutto gli stereotipi di genere: una ragazza su tre soffre di “gender confidence gap” cioè ritiene di essere meno portata in alcuni ambiti rispetto ai maschi solo perché donna.
Questa mancanza di fiducia nelle proprie capacità inizia prestissimo e si sviluppa sulla base di come le femmine vengono socializzate rispetto ai maschi. Il pregiudizio per cui videogiochi, scienze e sport di contatto sarebbero prerogativa maschile mentre materie umanistiche, bambole e vestiti sarebbero geneticamente ambiti femminili non ha un’origine molto antica — ma è ancora profondamente radicato nella nostra cultura. Per questo già dai 12/13 anni le ragazze cominciano a considerare alcune passioni e interessi “roba da maschi” e tendono ad allontanarvisi.