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in copertina, Piazza Tahrir, il 29 luglio 2011, foto via Flickr

Dieci anni fa Mohamed Bouazizi si dava fuoco a Sidi Bouzid, in Tunisia, aprendo una lunga stagione rivoluzionaria. Non è finita come gli attivisti speravano, ma non si può parlare di un fallimento

Dieci anni fa, il 17 dicembre 2010, il venditore di frutta tunisino Mohamed Bouazizi, dopo aver subito per anni maltrattamenti da parte della polizia, si appiccò il fuoco nella città di Sidi Bouzid, diventando il simbolo di un’ondata di proteste che avrebbero prima attraversato il paese, per poi estendersi in Sudan, Libano, Egitto, Siria, Libia, e Yemen. In Tunisia, però, tanti non lo ricordano con affetto, racconta Michael Safi sul Guardian. Le condizioni economiche del paese oggi sono così difficili da lasciare tantissime persone disilluse. Tuttavia, non si può non sottolineare quanto le Primavere arabe abbiano insegnato al mondo — e in particolare al mondo arabo — nuovi strumenti di protesta. Oggi, nuovi movimenti in Algeria, Iraq e di nuovo in Libano hanno molto da imparare dalle proteste del 2011, scrive Megan O’Toole su Middle East Eye.

La sollevazione in Tunisia, la cui economia nella regione era considerata in buona salute alla fine del 2010, arrivava a causa della disuguaglianza e della pressione economica causate dalle privatizzazioni e dalla progressiva erosione dello stato di welfare durante i due decenni della dittatura di Ben Ali, che, peraltro, perseguiva una politica incoraggiata dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. 

Nei vent’anni di governo di Ben Ali sono state privatizzate, ad esempio, più di 200 agenzie di stato. La libertà sindacale era gravemente compromessa, con i leader dell’Unione Generale Tunisina del Lavoro — a cui appartengono tutti i sindacati — costantemente sotto pressioni fortissime da parte del governo. Ad oggi, la mancanza di percorsi per raggiungere lavori meglio pagati, e soprattutto con contratti stabili, resta il problema principale che mantiene la popolazione in condizioni di gravi difficoltà. Il rapporto tra il sindacato e il governo, anche dopo la rivoluzione in cui i lavoratori hanno avuto un ruolo così importante, è ancora di piena contrapposizione.

L’“inverno arabo,” a cui si riferisce Amr Salahi su the New Arab, inizia con il colpo di stato in Egitto nel 2013 — e vede ora tantissimi dei paesi protagonisti della Primavera araba in situazioni difficilissime. Il fallimento nel completare il processo rivoluzionario e stabilire democrazie è considerato da molti commentatori occidentali un fallimento, ma si tratta di una lettura semplicistica, che ignora il ruolo storico di quelle sollevazioni, e il fatto che i presupposti rivoluzionari siano ancora presenti in tutto il mondo arabo. Ne ha scritto, in Italia, Martina Cera su Rolling Stone: le Primavere arabe non possono essere minimizzate a un rapporto causa–effetto sulle rivoluzioni — e le guerre, e l’instabilità politica — che hanno fatto seguito alla morte di Mohamed Bouazizi, ma vanno lette attraverso l’avanzamento socio–culturale che hanno garantito negli anni successivi.

Il soft power occidentale sulle regioni delle Primavere arabe è innegabile: se gli Stati Uniti non si erano mai contrapposti al governo Morsi, ad esempio, le pressioni interne agli Stati Uniti per inquadrare la Fratellanza Musulmana come una minaccia arrivano dagli anni di Obama alla Casa bianca, e anni dopo l’amministrazione Trump avrebbe valutato apertamente la possibilità di inserire l’organizzazione tra i gruppi terroristici, mentre al–Sisi veniva bollato come “il dittatore preferito” (sic) del presidente. In Egitto la situazione dei diritti umani è a dir poco allarmante, ma il movimento di protesta a cui abbiamo assistito nel corso del 2019 aveva anche molte richieste di stampo economico: le politiche indicate dal Fondo monetario internazionale nel 2016 hanno trasformato l’Egitto in una delle economie più forti del Medio Oriente, ma la crescita economica è stata settoriale, concentrata interamente in comparti — energia e telecomunicazioni, ad esempio — il cui valore è legato al capitale, ma che generano in proporzione un numero ristretto di posti di lavoro. Così, chi ne è escluso non ottiene nessun vantaggio dalla crescita economica del proprio paese.

Ma quando è possibile una rivoluzione? 

Se la retorica principale vuole che una rivoluzione sia possibile solo grazie a un grande sforzo, appunto, rivoluzionario,  cambiamenti epocali di questo genere possono avvenire solo in un contesto specifico: l’indebolimento progressivo delle strutture dello stato pre–rivoluzionario, che finisce per trovarsi nelle condizioni di non potersi proteggere dalla forza di pochi coraggiosi. Comprendere questo è fondamentale per capire cosa sia successo durante questi “inverni arabi” attraverso una lente che non sia colorata da residuali colonialisti o peggio presupposti razzisti. Le narrazioni contrapposte del “trionfo delle proteste social” o del “fallimento della democrazia nel mondo arabo” sono ugualmente limitate: quello a cui abbiamo assistito è il crollo di regimi che erano rimasti fragilissimi e, attraverso lunghe crisi — alcune ancora in corso, come quelle in Siria e in Yemen — un sanguinoso riallineamento delle strutture politiche locali alle sfere di potere economico e politico di livello superiore. Questo è particolarmente evidente in Siria, ad esempio, dove con una guerra ancora in corso, e che ha coinvolto forze di profilo internazionale, il regime sta lentamente lavorando per una ricostruzione dello status quo precedente.

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