Le persone queer, intese come chiunque non sia etero, esistono. Le persone trans esistono. E con loro tutte le altre categorie invisibili, perché le persone, se nessuno le nomina, non smettono di esistere: esistono solo con più fatica
Essere gay in uno stato che non fa niente per tutelarmi contro l’omofobia mi fa sentire come se avessi parcheggiato in divieto di sosta. Non in un posto qualsiasi: in un’area isolata dove la macchina proprio non dà fastidio a nessuno e la vista è pazzesca, ma c’è un cartello di divieto.
Il cartello è vecchissimo, tutto arrugginito e completamente privo di senso, però c’è. Quelli del posto mi dicono di ignorarlo, sono anni che nessuno ci fa più caso, non significa più niente. E allora io parcheggio, perché la vista qui è proprio bella, ma sotto sotto penso di essere in torto, quindi faccio mille manovre, mi attacco bene al margine della strada… Cerco di creare meno disturbo possibile, occupare il minor spazio possibile. La gente che passa mi vede sudare al volante e mi dice di smetterla di preoccuparmi, sto esagerando: quel cartello è ancora lì solo perché nessuno ha voglia di toglierlo, “figurati se trovi lo stronzo che ti fa la multa solo per questo!” E se lo stronzo invece arriva? Mi tocca pure dargli ragione, penso mentre scendo dalla macchina. Non sono d’intralcio a nessuno, però ci sono e sono in divieto di sosta, e quindi mi guardo intorno, faccio attenzione a chi arriva, a chi mi guarda, a come mi guarda. Mi godo la vista, però nel frattempo il mio cervello continua a ruminare. E se passando mi spaccano lo specchietto? Mi posso lamentare? Però se succede vuol dire che in fondo un po’ sto dando fastidio, forse nel caso dovrei stare zitta. E se arriva il vigile del paese? Quelli del posto mi difenderanno o lasceranno che mi dia la multa? Protesto o non ci provo neanche? No, ok, non è il caso di fare scenate, se succede mi scuso e dico che tolgo subito il disturbo, così magari si impietosisce e mi lascia stare. Oppure me ne vado subito, adesso, così non ci penso più.
Chi me lo ridarà, il tempo che passo a giustificarmi di qualcosa che dovrebbe essere legittimo?
Il più delle volte la ragione vince sulla paura, mi dico che mi voglio troppo bene per negarmi una cosa così semplice: nessuno dovrebbe decidere di farsi da parte per lasciare più spazio a chi ce l’ha già tutto a sua disposizione. E poi la vista è così bella… Vale la pena di violare una regola per guardarla. Perché in fin dei conti è questo che sto facendo, sto violando una regola non scritta. Il cartello è stupido e obsoleto, ma non l’ho messo io e io non ho l’autorità per levarlo. E chi ha l’autorità per farlo ce lo lascia.
Poco importa se lo faccia per pigrizia, menefreghismo o malafede: quel che conta è che il cartello lì c’è ancora, e se qualcuno decide di crearmi dei problemi, io devo tacere, perché la legge non è dalla mia parte. Perché è folle punirmi per quello che sto facendo, ma è permesso. Perché passare dei guai o no, quando le regole sono ambigue, è una questione di fortuna, non di diritto.
Il problema è tutto qui: viviamo in un cimitero di cartelli arrugginiti, lapidi dell’Italia che non c’è più La nostra società è cambiata e lo stato di diritto può scegliere se cambiare con lei o perdere ogni contatto con la realtà. Le persone queer, intese come chiunque non sia etero, esistono. Le persone trans esistono. E con loro tutte le altre categorie invisibili, perché le persone, se nessuno le nomina, non smettono di esistere: esistono solo con più fatica.
Le leggi più brutte che abbiamo sono quelle che ci ostiniamo a non scrivere per evitare le conversazioni collettive di cui abbiamo più bisogno. L’Italia, ad oggi, sull’omobitransfobia non si esprime: non la condanna e non la promuove. Eppure sa che esiste; sa che complica, ostacola o addirittura minaccia la vita di milioni di persone. E se lo Stato sa che c’è qualcosa che mi minaccia, ma non fa niente per tutelarmi, il messaggio che interiorizzo è che tutto sommato è normale che le persone come me vivano sentendosi sempre un po’ in torto; in uno stato di sottile, ma costante, paura. La colpa che ci viene fatta scontare non è strettamente l’essere queer o trans, ma la scelta di vivere apertamente come tali, di non nascondersi.
Una società che percepisce la nostra stessa esistenza come uno strappo alla regola non può accogliere senza polemiche la nostra richiesta di protezione, perché la vede come un’ulteriore richiesta di favoritismo, una pretesa sulla pretesa. Ci fanno la cortesia di lasciarci esistere anche se una parte importante della nostra identità ci differenzia dalla maggioranza, ma i favori finiscono qui: null’altro ci è dovuto.
Non ci sono dovuti il rispetto, l’empatia, la comprensione più elementare di chi siamo, la rappresentazione nei media e nelle istituzioni. Non ci sono dovuti perché è inconcepibile che appartenere ad una minoranza non abbia ripercussioni negative, che nessuno ci faccia pagare il prezzo della nostra differenza. Con il voto sulla legge Zan il parlamento italiano può scegliere di legittimare una sola categoria: le persone lgbtq+ o chi rappresenta una minaccia per loro. Far passare questa legge significa rimuovere finalmente l’arruginitissimo ma ben piantato cartello di “obbligo di eterosessualità” che abbiamo in Italia. Significa dire a milioni di persone “non stai infrangendo nessuna regola. Nessuno ti può dare la multa, e se te la danno puoi protestare, perché hai ragione tu. Se qualcuno passando ti rompe lo specchietto, puoi pretendere un risarcimento, perché lo spazio per passare senza arrecare danno c’era tutto, e tu hai il diritto di stare dove sei senza subire alcun danno.”
Forse, però, il significato profondo di questa legge l’ha spiegato meglio di tutti un omofobo dichiarato, l’avvocato Gianfranco Amato, autore già nel 2015 di un documento intitolato “Tredici motivi per dire no alla legge sull’omofobia.”
Motivo numero 3: “Le norme che si intendono approvare mirano, in realtà, ad introdurre
[…], l’idea che eterosessualità ed omosessualità siano condizioni naturali paritarie.”
Ed è il motivo numero 1 per cui approvarle.