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Il messaggio originario della body positivity sta scomparendo, per lasciare spazio a una forma edulcorata di marketing che fa leva sul sentimentalismo e sulle insicurezze per riuscire a vendersi meglio

Puntuale come l’arrivo dell’estate e della psicosi collettiva da prova costume, ormai da qualche anno siamo abituati anche all’arrivo del dibattito sulla body positivity. Con o senza ironia — “per avere un corpo da spiaggia basta avere un corpo e una spiaggia” — il dibattito mediatico italiano ripropone anche quest’anno la consueta fila di sermoni motivanti, incentrati su quanto è importante amarsi per ciò che si è. Il che non è affatto sbagliato, a patto però che non si perda di vista l’obiettività — e il senso di un movimento come quello della body positivity. 

La positività corporea è un movimento che mira a ridefinire i canoni di normalità e di bellezza a vantaggio dell’inclusività di tutti i tipi di corpo. È una battaglia che ha seguito il movimento femminista dalle origini, passando per la battaglia del Fat Underground. L’argomento ha attraversato poi la fine del Secolo, ed è tornato ad essere parte del dibattito mainstream quando, nel 2010, alcune attiviste nere “oversize” cominciarono a postare contenuti sui social network con l’hashtag #BodyPositivity per rivendicare il diritto dei loro corpi a essere rappresentati. Da lì, il movimento è cresciuto a livello mondiale, in maniera trasversale. Ha trovato testimonial d’eccezione nel mondo dello spettacolo, come Rihanna o Drew Barrymore, ed è riuscito a sdoganare i corpi “plus size” sulle passerelle e sui social network — si pensi alla modella curvy statunitense Ashley Graham e ai suoi 11 milioni di follower, o a Winnie Harlow, la modella di origini giamaicane affetta da vitiligine testimonial di innumerevoli case di moda. Nel solco di questa ondata si sono sviluppati una lunga serie di progetti editoriali, di startup e di aziende che hanno saputo cavalcare — e mercificare—  il fenomeno.

 

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Anche in Italia l’impatto della body positivity ha avuto una grande risonanza. L’estate scorsa, ad esempio, Tampax ha prodotto uno spot con una ragazza normopeso — fatto raro, pensando agli standard dell’industria pubblicitaria — e tantissime altre azioni ribadiscono sempre più spesso che bisogna ignorare le critiche della gente, ed essere fiere di come si è. Carolina Crescentini e Kasia Smutniak sono più volte state acclamate come paladine dell’inclusività per essersi mostrate con i loro difetti “al naturale,” come Vanessa Incontrada per il modo in cui ha rispedito più volte al mittente le “accuse” di chi le contestava di essere un po’ troppo “in carne,” ma non sono le uniche. Tre giorni fa Aurora Ramazzotti ha pubblicato una propria fotografia con i brufoli e senza trucco — come a voler dimostrare che “la perfezione non esiste,” venendo subito applaudita come nuova eroina della body positivity — alla showgirl ha poi fatto seguito anche la replica dell’influencer Giulia de Lellis che l’ha lodata per “il coraggio che a lei è sempre mancato.”

 

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Un movimento nato per produrre un cambiamento sociale e politico si sta davvero trasformando in un campionario di personaggi famosi celebrati come eroi per aver mostrato la propria acne? 

Per scongiurare questo scenario distopico serve fare un passo indietro e mettere in chiaro alcuni punti fondamentali. Il dibattito in merito è comunque indubbiamente benefico, ma rischia di essere un po’ troppo semplificatore in un paese in cui soltanto un mese fa si discuteva di “femminilità” in una chiave dubbia, incompleta, e soprattutto in qualità di requisito fondamentale per le donne. Il pericolo è perdere di vista lo scopo finale della body positivity. Che non è amare le proprie forme o “sentirsi belle” e nemmeno — come in buona fede spesso si intende — essere l’ispirazione per chi non si accetta: ma affrancarsi da un sistema opprimente, che impone un unico modo giusto di essere.

C’è infatti una parte del problema che costantemente non viene affrontata — perché è scomodo, impegnativo e poco remunerativo — che riguarda l’emancipazione. La body positivity non dice che bisogna piacersi, ma che è difficile piacersi proprio perché siamo vittime di una società sbagliata. Per “piacersi per ciò che si è”  — cosa che comunque detta così suona un po’ sempliciotta e irrealistica — bisogna mettere sul piatto altri fattori che vanno ben oltre l’orgoglio o la titanica e immediata approvazione di sé. 

È necessario, infatti, introdurre nel discorso altre due variabili: la libertà e l’autodeterminazione. Essere consapevoli della propria bellezza significa prima di tutto essere consapevoli dei condizionamenti sessisti, del patriarcato e del maschilismo che ci circondano. E soprattutto del fatto che per tanto tempo — e ancora oggi, in larga misura — il “sentirsi belle” ha dipeso dallo sguardo che il mondo ha avuto e ha su di noi. 

Sentirsi belle è l’ultimo passo di un percorso che comprende la destrutturazione di secoli di negazione del corpo e dell’emotività femminile: un fardello rimosso difficilmente risolvibile con una foto su Instagram. Ci saremmo sentite belle anche prima se soltanto ci avessero lasciate libere da una struttura culturale misogina — e in quanto donne siamo anche, che ci piaccia o no, il prodotto di una società che per tanto tempo ci ha imposto di piacere prima ancora di piacerci. 

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Non bisognerebbe perdere di vista, inoltre, che la body positivity è nata da donne nere, in un contesto di ulteriore discriminazione. Una forma di attivismo che rivendicava il diritto ad esistere di ogni tipo di corpo; grasso o magro, malato o sano, conforme o non conforme. Veniva affermato era soprattutto che ogni corpo è valido e che le donne non “devono” bellezza a nessuno, non esistono per attrarre gli uomini, né per piacere fisicamente a tutti. Non c’entrano niente quindi il “coraggio di mostrare il corpo,” o “trovare la forza di fotografarsi al naturale”. 

Non basta amare il proprio corpo per mettere fine alle discriminazioni, al body shaming o alle micro-aggressioni frutto di secoli di metafore invalidanti. Alla luce di questo, per quanto possa valere il discorso dell’esposizione mediatica e “dell’esempio positivo,” certi proclami ad amare il proprio corpo lanciati da influencer, bianche, ricche e occidentali — nonostante la buona fede — rischiano di suonare superficiali e ipocriti considerando uno scenario più ampio. E affermare che sentirsi belle dipende da noi, sciocco e riduttivo. 

Eppure si ha la sensazione che ormai il messaggio originario della body positivity sia andato man mano scomparendo, per lasciare spazio a una forma edulcorata di marketing. Un marketing che fa leva sul sentimentalismo e sulle insicurezze per riuscire a vendersi meglio. Nella maggior parte dei casi la body positivity è percepita e utilizzata come una stampella per la nostra autostima, dal momento che l’unico ragionamento che segue a immagini di donne che si mostrano così come sono, di norma è “se persino una donna grassa riesce a mostrare il proprio corpo, allora posso farlo anche io,” oppure “wow se persino con dei difetti fisici ci si riesce a piacere che problema mi faccio io che non ne ho.” E questo è sbagliato.

È sbagliato soprattutto nei confronti delle persone che vivono questa, e altre condizioni che purtroppo oggi sono ancora considerate atipiche e che non vengono generalmente accettate — nella fattispecie il sovrappeso, ma anche la malattia o la disabilità — sulla loro pelle, a prescindere dal fatto di viverla o meno come una missione o una battaglia personale. Le persone grasse, o con un corpo non conforme agli standard imposti, al limite, dovrebbero essere celebrate per il modo in cui resistono una società e in un mondo ostile che rigetta i loro corpi fino a rendere un’anomalia il solo fatto di esistere. 

Allora il presupposto, o meglio, ciò che andrebbe almeno capito prima di lanciarsi in panegirici sulla forza e il coraggio presunti di alcuni gesti che celebriamo come body positivity è che nessun corpo è sbagliato o da nascondere e soprattutto che in una società sana nessuna ragazza andando al mare dovrebbe sentirsi una guerriera per aver indossato un due pezzi.

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In copertina, foto via Instagram (Winnie HarlowAshley Graham e Abigail Graham Ralston, Diana Veras, Aurora Ramazzotti)