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tutte le foto di Ilenia Tesoro

Dopo Azulejos, Populous è tornato con un album più sensuale e libero che mai: abbiamo scambiato qualche parola con lui per capire la sua genesi e le sue influenze

Andrea Mangia, aka Populous, è uno dei più apprezzati producer italiani. Dopo il fortunato Azulejos — pubblicato nel 2017 — è tornato con un disco completamente dedicato alle donne. In ogni traccia dell’album, che in questo mese trascorso dall’uscita abbiamo ascoltato e riascoltato a ripetizione, troviamo collaborazioni che arricchiscono i suoni caldi, dilatati e ricchi di dettagli a cui Andrea ci ha abituati in questi anni. Dalle ovvie Myss Keta e Lucia Manca, ai nomi più ricercati del panorama internazionale, W è il disco giusto per festeggiare il Pride Month 2020.

“All’inizio avevo in mente un’operazione molto più in pompa magna, sognando di avere una lunga lista di artisti della scena queer mondiale. Ma poi era davvero troppo complesso a livello contrattuale e burocratico, anche perché ormai sempre più spesso ci si imbatte in manager rompicazzo

I tuoi lavori più recenti, Azulejos e Night Safari, fin dal titolo portano l’ascoltatore verso mondi precisi — ammesso che il viaggio della musica possa avere confini. In W il luogo in questione è il continente donna. Come hai affrontato questo viaggio?
W è un album corale, perché frutto di una collaborazione fra molte persone provenienti da luoghi anche molto lontani fra loro. Il concetto geografico qui è passato in secondo piano, non stavo cercando di portare l’ascoltatore in posti ben definiti, volevo solo creare la giusta atmosfera per viaggi morbidi ed estremamente sensuali.

Rimane anche in questo disco una sorta di filo conduttore nei pezzi che si evolve lungo la tracklist. È evidente il climax, vuoi raccontarcelo?
Non mi sono mai piaciuti i dischi con pochi pezzi che svettano e tutto il resto riempimento. Mi piaceva l’idea di introdurre elementi ritmici nuovi al mio percorso, come quelli house, così come non mi interessava più badare troppo all’eccessiva ricerca di omogeneità — processo che in Azulejos è stato forse ancora più importante della scrittura stessa. Ho pensato prima di tutto all’estetica di ogni ospite, è così che sono nati tutti i beat, cercando di valorizzare le caratteristiche di ogni artista presente. 

Ascoltandoti quello che colpisce e affascina è l’universo sonoro. Sei un producer, questa è la tua materia, certo. Ma più che altrove nella tua musica si apprezza il campo semantico nel quale raccogli i tuoi suoni. In W noto un’evoluzione rispetto ad Azulejos, anche se negli album ci sono alcuni elementi distintivi comuni. Come scegli la gamma di sonorità che poi usi nei tuoi dischi?
Dietro Azulejos c’era molto concetto e molta musicologia: ad esempio i ritmi potevano essere solo di un certo tipo, i suoni erano quasi sempre gli stessi per ogni pezzo, i samples dovevano tutti essere presi da dischi e produzioni provenienti dal Sud America. Alla fine darsi tutte queste regole spesso complica solo la vita, perché nella stragrande maggioranza dei casi sono cose che non vengono notate o comprese quasi da nessuno. In W ci sono svariati livelli di liberazione: c’è quella sessuale ma c’è anche quella sonora. Niente più paletti, ho usato tutto ciò che le mie orecchie trovavano sexy. 

Ci racconti qualcosa delle varie collaborazioni? Come sono nate, come è avvenuta la scelta rispetto ai brani?
All’inizio avevo in mente un’operazione molto più in pompa magna, sognando di avere una lunga lista di artisti della scena queer mondiale. Ma poi era davvero troppo complesso a livello contrattuale e burocratico, anche perché ormai tutti hanno un manager rompicazzo. Quindi me la sono fatta solo con la mia claque. Molte collaborazioni erano davvero scontate, come quella con KETA — ce lo immaginiamo un disco sulle donne senza di lei? Probabilmente no! — ed Emmanuelle, entrambe persone che ho frequentato tantissimo ultimamente. 

Con Lucia Manca e Matilde Davoli idem, è gente che vive a pochi chilometri da casa mia e vedo un giorno sì e l’altro pure. L’unica collaborazione che è nata senza una conoscenza più o meno solida è stata quella coi Weste. Quel pezzo inizialmente lo avevo scritto per Ela Minus, che aveva già collaborato con me in Azulejos. Lei però nel frattempo è stata messa sotto contratto da Domino Records (un’importante etichetta discografica indipendente inglese ndr), con tutti gli impegni che ne sono conseguiti. Da un lato mi sono sentito un po’ abbandonato, ma alla fine ero davvero troppo felice per lei. Domino è una di quelle etichette/istituzioni dei sogni, come la Warp, la Ninja Tune e la Sub Pop. Per cui mi son dato da fare e ho cercato altro. Sapevo che i Weste erano molto amici di Kaleema, Barda e Chancha Via Circuito, che aveva prodotto il loro penultimo album. Per cui ho preso coraggio e ho spedito un timido messaggio: “Ciao sono Andrea, un ragazzo italiano che fa musica col nome di Populous e bla bla.” La risposta è stata esilarante: Clara, la cantante, mi manda una foto del vinile di Azulejos con questo messaggio: “Non devi presentarti, a Buenos Aires tutti i dj suonano la tua musica!” E niente, amici per sempre pure con loro. 

“La tradizione italiana, e non parlo solo di quella musicale ma anche quella derivata dal retaggio cattolico e sociale, non ci ha di certo aiutati a sentirci liberi di esprimerci in modi sempre nuovi, diversi, senza evidenti radici nel nostro Paese, bensì ci ha reso sempre ‘weird,’ diversi, dissacranti e dissacratori, ma di cosa poi?”

Un tempo dire a un artista italiano che la sua musica suonava “internazionale” era una complimento. Specie nella musica elettronica. La tua musica lo è a tutti gli effetti. Inoltre tu arrivi da una terra, il Salento, che è contaminazione culturale allo stato puro. Nella musica esistono veramente questi confini?
I confini sono solo nelle nostre menti. La tradizione italiana, e non parlo solo di quella musicale ma anche quella derivata dal retaggio cattolico e sociale, non ci ha di certo aiutati a sentirci liberi di esprimerci in modi sempre nuovi, diversi, senza evidenti radici nel nostro Paese, bensì ci ha reso sempre “weird,” diversi, dissacranti e dissacratori, ma di cosa poi? 

Anche questa volta, come accade quasi sempre nei tuoi lavori, hai voluto raccontare qualcosa. L’elettronica nasce con un peccato originale: essere una musica da intrattenimento. Forse anche per questo è più libera e può raccontare storie meglio di altri generi?
Se davvero dobbiamo parlare di peccati allora direi che quello della musica elettronica è che gli manca la parola. Nella maggior parte dei casi la musica elettronica è musica strumentale, per questo a volte fa più fatica dei generi cantati a comunicare dei concetti concreti. Ma crea mondi astratti, mondi così magici che in alcuni casi le parole potrebbero quasi sporcare. 

Chiudo con una domanda inevitabile sul periodo storico che stiamo vivendo. Sono fiducioso che prima o poi torneremo a vivere la musica live come un tempo e non credo minimamente nelle soluzioni più fantasiose tipo drive in o concerti su Fortnite. Però in questo lasso di tempo tra l’oggi e un domani che non sappiamo quanto distante sarà, la musica è privata di un elemento fondamentale. Senza live è come vivere una storia di coppia senza il sesso. Ci si può “accontentare” dei dischi in questo periodo? Come dovremmo comportarci e soprattutto come vive un artista questa privazione?
Sono d’accordo con te sulla disillusione che provi verso tutti i tentativi di rimpiazzare la musica live. 99% sono tutti esperimenti goffi. Non siamo ancora pronti a molte di quelle soluzioni e forse non lo saremo mai. Non è che in questo periodo dobbiamo accontentarci di un disco, ma il periodo può essere meno greve proprio grazie a quel disco lì, quella canzone lì, quel testo lì. Io ad esempio non ho fatto neppure mezzo set in streaming. Ne ho guardato alcuni a tratti, svogliatamente, con poco entusiasmo. Così mi son detto: “Non devi farlo per forza, non ti obbliga nessuno, se un cosa non ti piace non sforzarti di fartela piacere.” Sto ancora aspettando. Ma faccio parte di quella fetta di persone fortunate che hanno vissuto in maniera serena la loro quarantena, convinti che uno stop generale fosse necessario.