Il 12 agosto sono usciti su Netflix i primi sei episodi della serie tv The Get Down – epopea newyorkese sull’evoluzione della pop culture – la cui regia è stata affidata all’australiano Baz Luhrmann. L’autore ha diretto film diventati cult come Romeo + Juliet e Moulin Rouge, pellicole dallo stile distinto, al cui centro si muovono figure tragiche e con una predisposizione all’uso della musica come collante narrativo. Con The Get Down il cineasta ripropone i suoi stilemi, adattandoli al piccolo schermo.
I protagonisti sono gli abitanti del South Bronx – parte della città diventata negli anni Settanta sinonimo di degrado e criminalità – alla ricerca di un’alternativa rispetto al futuro che il quartiere gli propone. Come spesso succede, però, è proprio da situazioni di povertà e scarse politiche sociali che scaturisce l’arte più pura. Ed ecco che, come accadde nella realtà, The Get Down inquadra la nascita e l’evoluzione della pop culture: le basi dell’hip-hop, la street art dei graffitari, gli albori della break dance e il fervore generazionale di quegli anni.
Il regista australiano è ormai noto per la sua inventiva e per il suo stile ricco e strabordante (non per niente è la serie più costosa di Netflix), all’annuncio della sua nuova produzione dunque ci si è subito chiesti se la sua visione registica sarebbe riuscita a sopravvivere in un ambito più ristretto come quello televisivo (ormai sarebbe più corretto dire “online”, ma tant’è). La risposta, più o meno affrettata, dei critici è quasi unanime: se la trama pecca in qualche passaggio, lo stile di Luhrmann non può che risaltare in un contesto come quello dei Seventies newyorkesi.
Sebbene la critica oltremanica abbia ragione sulla confusione narrativa accelerata dai ritmi della disco dance, un elemento chiave – che in qualche modo rende unica la serie – utile alla riflessione è apparentemente sfuggito alla loro attenzione: la sigla.
In contemporanea al meno osannato The Get Down, faceva la sua comparsa sul portale streaming Stranger Things, la serie che riporta in auge l’horror anni Ottanta. Tra i tanti pregi, la sigla affiora per eleganza citazionistica, tanto da spingere il sito Vox.com a produrre un video sulla sua produzione.
Ma la sigla di Stranger Things non rappresenta altro che il perfezionamento di uno stile classico, che nulla aggiunge ai suoi predecessori. Quello che invece compie la sigla di The Get Down è evolvere uno dei pilastri della serialità, cambiando ciò che per decenni sembrava impossibile cambiare.
[Spoiler ahead]
Ogni puntata si apre con le immagini di un concerto il cui cantante non è che il giovane protagonista della serie, Ezekiel Figero, in un futuro lontano (il nostro decennio) in cui rap e hip-hop sono diventati il genere musicale dominante.
Attraverso le rhymes del cantante (e qua sospetto il tocco Luhrmann) ripercorriamo le vicende delle passate puntate – la sigla ci risparmi così l’ormai stantio PREVIOUSLY ON.
The Get Down fa un passo avanti: con il concerto-sigla contestualizza per lo spettatore le vicende storiche di quegli anni, le rime del rap – e la storia che raccontano – diventano dunque la testimonianza della tragicità del Bronx, e più in generale dell’America, negli anni Settanta.
Il duplice valore, narrativo ed esplicativo, della sigla di The Get Down spezza finalmente il rapporto che i titoli di testa intrattenevano con la ripetitività seriale, che solo in parte era stata intaccata da colossi come I Simpson (il divano) o il più recente Game of Thrones (il cambio degli edifici).