Se avete la sfortuna di vivere nel Ventunesimo secolo e siete connessi a internet, per quanto i vostri ascolti musicali possano essere fermi a Rovazzi avrete certamente captato qualcosa dell’incessante chiacchiericcio che da settimane circonda il nuovo album di Frank Ocean — un nuovo album che si sarebbe dovuto intitolare Boys Don’t Cry e di cui è stata continuamente rinviata la data di uscita, con grande scorno di una schiera di fan sempre più incattiviti.

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Alla fine questo benedetto disco è uscito, poche ore fa. Si intitola Blonde (o Blond, come è scritto in copertina), ha diciassette tracce e mette fine — forse — a una diatriba durata quattro anni, un hype sfociato in psicosi collettiva, soprattutto nelle scorse settimane.

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L’ultima data di uscita dell’album era attesa infatti per il 5 agosto, secondo un’anticipazione del New York Times. Ma non s’era visto niente. In compenso, è uscito ieri un visual album intitolato Endless, ossia un video di 45 minuti accompagnato da 18 tracce inedite, a dire il vero piuttosto noiose (anche se tutti si sono sentiti in dovere di scrivere che sono una figata pazzesca). Il film ha fatto seguito a un misterioso live stream trasmesso sul sito ufficiale di Ocean a partire dal primo agosto: per gran parte del tempo una stanza vuota con rumori di sfondo, e poi un uomo (probabilmente lo stesso Ocean) che tagliava legna per costruire una scala. Bisognava considerare Endless come il nuovo album tanto atteso? O si trattava soltanto di un antipasto, una sorta di teaser trailer video-musicale, come assicura Rolling Stone?

Alla fine si è rivelata vera la seconda. Ma la domanda a cui bisogna rispondere prima di tutto è: perché all’improvviso a tutti importa qualcosa di quello che fa Frank Ocean?

Frank Ocean è un rapper di New Orleans, ha 28 anni ed è diventato famoso con il suo primo album, Channel Orange, uscito nel 2012 e acclamato da molti come miglior disco di quell’anno. Perfetta epitome dell’R&B contemporaneo che piace (anche) ai critici bianchi, sempre contentissimi di poter parlare delle ibridazioni tra jazz, funk e hip-hop e soul (vedi alla voce To Pimp a Butterfly), Channel Orange è un disco senz’altro ben prodotto, per carità, anche se magari è stato avventato paragonarlo a Pet Sounds per importanza “generazionale.” (Tra l’altro pare che Brian Wilson abbia escluso Ocean da un suo disco solista —  perché voleva rappare. Peccato.)  

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Channel Orange, meno noioso di Endless ma ugualmente povero di groove, è apprezzabile più per l’intimismo delle liriche che per la musica. Probabilmente è la cosa che più si avvicina a un incontro sonnacchioso tra Marvin Gaye, Drake e James Blake — che guarda caso si ritrova tra i collaboratori di Endless.

Sopravvalutato o no, Channel Orange ha venduto un mucchio di copie e ha dato inizio a un fenomeno di isteria generalizzata davvero sorprendente per un artista con un solo LP e un mixtape all’attivo. Già nel 2013 Ocean aveva detto di essere al lavoro su un nuovo disco; poi l’aveva accennato su Tumblr nel 2014; la data di uscita viene ufficializzata per la prima volta a giugno 2015, per il mese successivo: ed è qui che compare il titolo Boys Don’t Cry, non per l’album ma per un qualche genere di rivista, che Ocean avrebbe dovuto pubblicare insieme al disco. Non si è vista traccia né dell’uno né dell’altra, fino all’escalation di queste settimane.

Quattro anni di attesa e di hype sapientemente coltivato, attraverso continui accenni e indizi — che si tratti di modificare il codice del sito o di caricare tracce silenziose su Soundcloud, fino allo streaming di inizio agosto, al rilascio di Endless e al supposto leak di qualche pagina dell’ipotetico magazine, che adesso si è rivelato una cosa vera ed è comparso nei negozi insieme al disco. Tutto puntualmente ripreso e documentato da un’infinità di articoli e commenti, con tanto di account e newsletter e perfino app dedicate all’aggiornamento su tutte le mosse del beniamino — perché evidentemente sarebbe una tragedia ascoltare il disco nuovo, quando mai fosse uscito, con un’ora o addirittura un giorno di ritardo.

Blond è stato preceduto — poco dopo l’uscita di Endless — dal singolo Nikes, che apre l’album. Molti dubitavano ormai che sarebbe mai uscito, altri speculavano su una possibile data a novembre.

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Fino a ieri, le reazioni di delusione e gli appelli stanchi a buttare fuori finalmente questo maledetto album si sono susseguite per oltre un anno tanto su Twitter quanto sulle pagine del Guardian. Il livello di esasperazione e di pressione della fanbase di Ocean è arrivato al punto che qualcuno si è messo sistematicamente a vandalizzare la sua pagina di Wikipedia, mentre c’è chi ha difeso il suo diritto a starsene in pace paragonandolo addirittura ad Harper Lee. A dire il vero, Ocean — che non è né su Twitter né su Facebook — sembra fregarsene abbastanza della furia e degli insulti dei fan.

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Frank Ocean nel 2015 con le ipotetiche copie del magazine Boys Don’t Cry

L’album comunque doveva uscire prima o poi, se non altro perché dovrà fruttare un sacco di soldoni alla Apple (prima che allo stesso Frank Ocean), che ha l’esclusiva sia di Endless sia di Blond: un bel pezzo di artiglieria pesante nella guerra dello streaming musicale. Il tutto ha l’aria di essere — poco sorprendentemente — un’iniziativa promozionale portata all’eccesso, talmente palese che stupisce vedere tanta gente prendersela così sul personale. Il rumore sollevato è servito perfino a far tornare in classifica Channel Orange — in mancanza del disco nuovo, giustamente uno si ascolta quello vecchio.

La vicenda nel suo insieme invita a farsi parecchie domande sulla natura del divismo 2.0, come se non fossero bastati gli One Direction. Ci si può chiedere se sia sano il controllo millimetrico del pubblico sul lavoro dell’artista nel suo svolgersi — e non soltanto al suo completamento — e quanta importanza tutto il contorno faccia perdere all’opera d’arte in sé — che dovrebbe essere l’unica cosa da valutare. Non importa neanche discutere se la qualità musicale di Blond sia proporzionata o meno a quest’attesa messianica: qualsiasi cosa sarebbe sproporzionata. Il nuovo disco avrebbe potuto essere indifferentemente un capolavoro assoluto o un campionamento di scoregge.

Viceversa, la tendenza dei settori del pubblico più attivi su Twitter a pendere dalle labbra dei propri eroi induce negli artisti una rovinosa tendenza a comportarsi al pari di divinità dal volere imperscrutabile. L’esempio più celebre è dato dai Radiohead, che pochi mesi fa si sono dilettati in un balletto simile, cancellando tutta la propria esistenza online e cominciando a postare su Instagram criptici frammenti di video prima di rilasciare A Moon Shaped Pool, che… Mah, è un altro disco dei Radiohead.

Trasformare in un’operazione artistica il processo stesso della release non serve a compensare le mancanze di un disco — al contrario, le esalta. E stanca in fretta. O almeno, dovrebbe.