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Fuori Aler dalla gestione delle case popolari, salario minimo e nidi pubblici per tutti. Da ieri chiunque può partecipare a Milano2020, la consultazione pubblica del comune per la fase 2, e l’abbiamo fatto anche noi

Da ieri è online sul sito del comune di Milano il modulo con cui è possibile fornire il proprio contributo al miglioramento della città post–pandemia. La crisi che stiamo vivendo ha messo la città in pausa forzata prima di qualsiasi altra metropoli in Europa. Se ne può forse trarre qualcosa di buono però, cercando sì di tornare a una vita normale — ma affrontando le ingiustizie che interessavano Milano prima del virus.

Anche se un po’ di reticenza è comprensibile e legittima in queste occasioni — leggeranno mai la mia proposta? Sto dando consigli palesemente squilibrati? — si tratta di un buono strumento messo a disposizione dei cittadini per fare almeno sentire la propria voce nel miglioramento della cosa pubblica, se qualcuno poi si metterà a leggerli. 

Accedendo al form per la compilazione, si scopre che ci sono cinque separate aree tematiche in cui fornire il proprio contributo. Abbiamo deciso di fornire anche noi uno spunto per ogni voce proposta dal comune, sperando di aver compreso cosa intendano con l’area tematica ECONOMIE, RISORSE E VALORI.

GOVERNANCE, DIRITTI E INCLUSIONE

La necessità di distanziamento sociale hanno messo in risalto come, per restare in casa, sia utile avere una casa, possibilmente vivibile e senza necessità di interventi di ristrutturazione urgenti. A Milano questo privilegio non è dato a tutti. Ancora moltissime persone sono in attesa di una casa popolare: la nuova criticatissima legge regionale per l’assegnazione degli alloggi, varata alla fine dello scorso anno, ha ristretto ancora di più la possibilità per i cittadini di accedere alle graduatorie, discriminando i meno abbienti, gli stranieri, i più anziani — proprio chi avrebbe più bisogno di un alloggio — con un metodo di assegnazione ingiusto e insensato.

È evidente che ALER, l’azienda regionale per l’edilizia pubblica, è del tutto inadeguata a gestire l’emergenza abitativa in città. Il comune dovrebbe muoversi per capire se è possibile ottenere, magari tramite l’intervento del governo, la gestione degli alloggi popolari di proprietà regionale sul suo territorio e gestirli in modo autonomo. La gestione comunale ovviamente non risolverebbe tutti i problemi degli alloggi popolari — ma almeno il patrimonio pubblico verrebbe gestito da un ente che ha dimostrato di saper meglio amministrare quanto è di sua responsabilità. Del resto il comune ha affidato la gestione dei propri alloggi ad ALER fino al dicembre del 2014, rompendo poi la collaborazione con la società a causa delle evidenti mancanze di quest’ultima. Si tratta pur sempre di due enti pubblici. Pensare a un cambio di gestione nel patrimonio pubblico ci sembra un cambio di proprietà — ma lo scopo di gestire un’azienda privata e una pubblica è e dev’essere diverso: non fare soldi, ma garantire il massimo benessere ai cittadini.

Questa proposta può suonare audace, ma è importante capire che suona eccessiva esclusivamente per un problema di ostacoli politici, dati in massima parte allo strapotere della destra in regione Lombardia a cui non sembrano essere concepibili alternative, ma che durante questa crisi ha mostrato una volta di più la propria iniquità. ALER Milano versa in una situazione catastrofica, non essendo nemmeno in grado di provvedere alla manutenzione ordinaria, mentre MM ha chiuso il 2018 in attivo per 31 milioni di euro

ECONOMIE, RISORSE E VALORI

Lo scorso 2 gennaio sono stati tagliati gli alberi di via Bassini, a Lambrate, per far posto a un nuovo edificio di proprietà del Politecnico, con i lavori sorvegliati dalle forze dell’ordine. E all’inizio della quarantena sono stati abbattuti molti alberi al parco della Goccia, in Bovisa, col favore delle tenebre mediatiche. Il comune di Milano ha in cantiere un piano per piantare tre milioni di alberi entro il 2030, ma oltre a questo la realizzazione del verde pubblico e la gestione del patrimonio ambientale esistente sembra essere più interessata alla gestione degli interessi privati e alla valorizzazione di alcune aree della città che all’effettiva vivibilità di quei quartieri.

Il comune dovrebbe pensare maggiormente a sviluppare e rendere accoglienti i quartieri per gli attuali residenti anziché lanciarsi in operazioni che hanno come rischio molto concreto un’accelerata della gentrificazione. Il mercato immobilare milanese sembra aver subito una contrazione importante durante la pandemia, e potrebbe essere utile cercare di ripartire in modo più sostenibile anziché puntare a tornare “come prima.”

Valorizzare le risorse disponibili significa anche evitare, o almeno gestire con estrema prudenza operazioni come il trasferimento dell’università Statale da Città Studi al deserto di Rho Fiera, o evitare che le olimpiadi invernali del 2026, con la scusa del “post-crisi,” si trasformino in una mangiatoia per palazzinari e una fiera della speculazione urbana ed edilizia.

LAVORO

In questo periodo di crisi si è osservato come le istituzioni locali, nel bene o nel male, abbiano lo spazio politico per fare proposte più avanzate rispetto al dibattito nazionale. Visto che il dibattito sul salario minimo legale è sostanzialmente fermo, il comune potrebbe aprire una campagna per la promozione di un salario minimo sul territorio cittadino giocando di anticipo rispetto all’esecutivo, facendo contemporaneamente valere il proprio peso economico presso il governo di Roma, per accelerare l’approvazione di una legge di respiro nazionale vera e propria a riguardo.

Milano è una delle città d’Italia in cui le disuguaglianze di reddito sono più alte: esiste una classe che percepisce stipendi d’oro in misura molto più alta che nel resto del paese, e una classe molto più allargata che invece non ha alcun motivo di condividere la visione della “locomotiva d’Italia” che “non si ferma,” promossa anche da questa giunta. Secondo dati del Sole 24Ore, Milano è la città con il reddito complessivo più alto, ma anche tra quelle in cui la variazioni di stipendio al proprio interno sono più ampie. Un problema che dovrebbe essere in cima alla lista di ogni amministrazione che si definisce progressista.

TEMPI, SPAZI E SERVIZI

Durante questa crisi è emersa con forza la contraddizione tra l’essere costretti ad andare a lavorare per mantenere i propri figli e la necessità di qualcuno che possa curarli, questi figli, mentre si è al lavoro. La riapertura degli uffici ma non delle scuole rischia di ricadere sulle spalle dei meno abbienti — come al solito — o di chi non può fare affidamento a nonni o parenti per questo compito fondamentale.

La situazione per quanto riguarda gli asili nido è però drammatica anche in tempi normali. Le tariffe sono proibitive, risultando problematiche per numerose famiglie anche di “ceto medio,” e il numero di strutture pubbliche è insufficiente. La gestione dei piccoli delle famiglie milanesi viene dunque in buona parte assorbita dai nidi privati, che costituiscono circa il 70% dell’offerta di posti lombarda.

Un’offerta che è messa a grave rischio dalla crisi: in una lettera inviata al presidente della Repubblica Mattarella, alla fine di marzo, Assonidi ha dichiarato che quasi il 40% dei nidi e delle scuole d’infanzia private a Milano rischia di chiudere definitivamente entro 1-3 mesi. Il comune di Milano potrebbe agire, da solo o come intermediario in una pratica con le istituzioni nazionali, verso una transizione da un sistema disuguale, fatto per favorire il profitto come è quello di oggi, ad uno basato su un’offerta ampia e abbordabile per tutte le fasce di reddito. Detto in altre parole: potrebbe essere l’occasione giusta per ripensare al nostro sistema di assistenza all’infanzia, interpretandolo come un diritto rendendolo del tutto pubblico — o, almeno, pubblico e accessibile quanto lo sono le scuole per i bambini più grandi e i ragazzi.

SOSTENIBILITÀ

Il rischio che i cittadini tornino in massa all’automobile per paura del contagio è alto e, tutto sommato, comprensibile. Un’amministrazione attenta deve cercare di prevenire quella che sarebbe una catastrofe ambientale e di vivibilità della città, favorendo altre forme di mobilità e pianificando in modo molto attento la cosiddetta “fase 2.”

Sembra che il comune si stia muovendo nella direzione giusta, dato che già nella versione iniziale di Milano2020 è previsto l’impegno ad istituire delle “zone 30” — ovvero delle aree urbane in cui il limite di velocità è di trenta chilometri all’ora, anche se la dicitura compare una sola volta e in maniera non precisamente circostanziata nel prospetto diffuso il 24 aprile dalla giunta. Una pianificazione di questo tipo, vasta ed accurata, del traffico in città, avrebbe numerosi effetti benefici, come ci aveva spiegato tempo fa l’urbanista Matteo Dondé.

Non basta, però: potrebbe essere il momento di pensare seriamente alla proposta, caldeggiata nei mesi scorsi dal consigliere Pd Monguzzi, di istituire un biglietto urbano per i tragitti brevi che costi di meno rispetto a quello ordinario, in modo da incoraggiare le persone ad usufruire dei mezzi pubblici anche per spostamenti di breve distanza. E sempre nel contesto dell’espansione dei mezzi pubblici, potrebbe essere il momento per pensare finalmente alla costruzione della sesta linea della metropolitana e della linea circolare, che da molti anni sono relegate nell’universo del possibile e attendono di essere messe in cantiere nel mondo reale.

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