Da Ilaria Alpi a Giuseppe Pinelli, passando per i detenuti torturati a San Vittore durante la Seconda Guerra Mondiale.
Milano nei nomi delle proprie vie, nel bene e nel male, ha nascosto un intero passato. Tempo fa avevamo parlato dello scandalo dei nomi di vie dedicati all’avventura coloniale italiana, diffusi in vari quartieri della città, che andrebbero sistematicamente rimossi. E chi vive nella zona di Greco, a nord-est, avrà notato vie con nomi “inspiring” come Via del libero pensiero, Via martiri oscuri, Via delle leghe: eredità di quando Greco, prima del fascismo, era un comune indipendente e governato da una giunta rossa e aveva deciso di dare alla propria toponomastica un po’ di quel colore.
Ciclicamente scoppia un dibattito sull’opportunità di dedicare una via a questa e quella figura del passato. Non è un fatto solo milanese: il mese scorso a Verona è stata avanzata l’incresciosa proposta di dedicare una via all’ex segretario MSI e redattore di La difesa della razza, Giorgio Almirante. A Milano l’ultimo caso riguarda invece Bettino Craxi, segretario del PSI e figura chiave della politica italiana dei gloriosi anni Ottanta.
Ieri il dibattito in Consiglio comunale sulla questione è finito con Mariastella Gelmini che urlava ai consiglieri 5 Stelle di sciacquarsi la bocca parlando di Craxi — i consiglieri avevano osato far notare il passato non proprio penalmente impeccabile di Craxi. La decisione è stata rimandata, ma una cosa è certa: la sua figura rimane ancora divisiva. Se da un lato è stato il primo Presidente del consiglio socialista della storia italiana, la sua segreteria è coincisa con quella che dal PCI veniva definita la “mutazione genetica” del PSI, diventato una sorta di partito blairiano prima ancora della comparsa di Tony Blair, che con le sue politiche spianò la strada al successivo avvento di un buon amico di Craxi, Silvio Berlusconi.
Abbiamo quindi deciso che la strategia migliore per intrometterci nel dibattito è il benaltrismo: se Craxi è ancora un personaggio delicato, ci sono molte e ben altre figure storiche che meriterebbero un ricordo topografico da parte del comune di Milano. Eccone alcune:
GIUSEPPE PINELLI
Giuseppe “Pino” Pinelli muore il 15 dicembre 1969 precipitando dalle finestre della questura di Milano. Pinelli era stato arrestato il 12 dicembre 1969 insieme ad altre persone sospettate di essere coinvolte nell’attentato di piazza Fontana, avvenuto lo stesso giorno. I processi degli anni successivi alla strage hanno dimostrato però come Giuseppe Pinelli fosse completamente estraneo all’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura — scontando, di fatto, la colpa di essere un esponente del movimento anarchico cittadino. L’11 dicembre 2019 in piazza Segesta, a Milano, è stata inaugurata una targa commemorativa in memoria della “18^ vittima innocente in seguito alla Strage di Piazza Fontana.” I giorni scorsi la targa è stata vandalizzata, ma il sindaco Giuseppe Sala ha scritto in un post sulla sua pagina Facebook che sarà presto ripristinata.
ILARIA ALPI
È stata una giornalista italiana e fotoreporter e ha lavorato per la Rai. Muore in circostanze misteriose mai chiarite il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Ilaria Alpi si trovava a Mogadiscio insieme al cineoperatore Miran Hrovatin per seguire il ritiro delle truppe statunitensi dal Paese. Come riporta Il Post, che ha ricostruito tutta la vicenda, “i due parallelamente stavano indagando su un presunto traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici, che con la copertura della missione umanitaria avrebbe coinvolto anche società italiane.” A quasi 26 anni di distanza non sono ancora chiari i mandanti e le circostanze dell’omicidio e non si sa che cosa abbiano scoperto Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
GIOVANNI FRANCESCO ASPERTI E LORENZO ORSETTI
Chi ha deciso di partire dall’Italia per andare a combattere in Kurdistan tra le fila dello YPG non riceve molti riconoscimenti — anzi, in genere viene sottoposto a provvedimenti restrittivi e di sorveglianza. Non tutti però sono tornati per avere questo privilegio. Negli ultimi due anni due italiani sono morti combattendo contro le milizie jihadiste e filo-turche nella regione: Lorenzo Orsetti e Giovanni Francesco Asperti.
La storia di Lorenzo Orsetti è più nota al grande pubblico, e alla fine di gennaio è scoppiata una piccola polemica nel comune di Bologna, dove era gli era stato dedicato da un collettivo del quartiere San Vitale, a nord-est della città, un giardino — il comune di Bologna però ha già rimosso la targa commemorativa.
Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, è nato invece a Ponteranica, in provincia di Bergamo, in una famiglia di sensibilità politica progressista. Il padre era infatti conosciuto per il suo lavoro nel mondo della cooperazione, ma anche per essere tra le persone che hanno dato vita al Manifesto. Lo zio invece era stato un senatore del PCI. Giovanni Francesco Asperti si è laureato all’Università Bocconi in Economia e commercio e ha lavorato per una società che collaborava con Eni. Nell’estate 2018 è partito per il Kurdistan, lasciando la moglie e i due figli. Muore il 7 dicembre 2019, in circostanze ancora non chiare, in Rojava, nel Kurdistan siriano.
MARIANNA DE LEYVA
Marianna de Leyva, meglio nota come la Monaca di Monza è nata a Milano il 4 dicembre 1575. La Monaca di Monza era la figlia di Martino de Leyva y de la Cueva-Cabrera, conte di Monza. A tredici anni venne costretta da suo padre a entrare nell’Ordine di San Benedetto. A sedici anni fu costretta con la forza a prendere i voti e diventò la monaca suor Virginia Maria. La figura della Monaca di Monza venne ripresa anche da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi .
La storia di Marianna De Leyva è legata soprattutto alla terribile punizione toccatale in seguito allo svelamento della sua relazione con un nobile locale — che aveva anche ucciso alcuni testimoni: murata viva in una celletta, a pane e acqua, per quattordici anni per ordine del cardinal Federico Borromeo. Al termine della punizione il cardinale la troverà “redenta,” e le chiederà di andare come guida spirituale presso alcune novizie non certe della propria vocazione.
LUIGI TAVECCHIO E I DETENUTI DI SAN VITTORE DURANTE LA GUERRA
Durante il periodo della seconda guerra mondiale, il carcere di San Vittore venne utilizzato dalle SS e dalle milizie della RSI come luogo di detenzione, tortura e smistamento di detenuti. Tra le sue mura, tra il dicembre ‘43 e il gennaio ‘44, venne rinchiusa appena bambina anche Liliana Segre con la sua famiglia, prima di essere deportata al campo di sterminio di Auschwitz.
Non è stata la sola: nel carcere, alcuni dei “raggi” che compongono la struttura erano di esclusiva giurisdizione tedesca, e vi venivano applicate le leggi dello Stato tedesco — in particolare, uno era dedicato ai prigionieri ebrei. Decine di persone — è difficile avere stime precise — vennero da qui deportate nei campi di lavoro o di sterminio in Germania.
Non era necessario però essere deportati: molti partigiani e dissidenti hanno trovato la morte anche tra le stesse mura del carcere. È il caso di Luigi Tavecchio, coinvolto nell’organizzazione dei grandi scioperi operai del marzo ‘43, morto mentre veniva torturato dall’OVRA, la polizia segreta fascista, proprio a San Vittore.
FERNANDA PIVANO
Traduttrice, scrittrice e giornalista, Fernanda Pivano nasce a Genova, si forma e lavora a Torino, ma trascorre il dopoguerra a Milano. La sua prima traduzione è stata l’Antologia di Spoon River, per Einaudi, resa in una versione che è diventata storica quanto il testo in lingua originale. Non si è più fermata: grazie a lei abbiamo letto in italiano praticamente tutta la grande letteratura statunitense, da Scott Fitzgerald a David Foster Wallace, passando per Parker, Faulkner, ma anche Ginsberg, Kerouac, Burroughs, fino a Jonathan Safran Foer.
Il suo ruolo non si riassume semplicemente in quello di traduttrice — se le sue traduzioni sono brillanti, il suo lavoro come “talent scout” editoriale fu impagabile. È impossibile sapere quando sarebbe arrivato, senza Pivano, Richard Wright in Italia, insieme a una sensibilizzazione — almeno in ambito intellettuale — sull’oppressione razzista negli Stati Uniti nel ventesimo secolo. Pivano è morta undici anni fa, ma il suo contributo nel formare la cultura italiana contemporanea, alta, pop e di intrattenimento, durerà a lungo.
SALVATORE PRINCIPATO
Salvatore Principato è stato un insegnante siciliano, emigrato a Milano nel periodo tra le due guerre mondiali. In seguito al delitto Matteotti entra a far parte della formazione antifascista Giustizia e Libertà, rimanendo un osservato speciale da parte del regime per tutti gli anni ‘30, scontando brevi periodi in carcere per il suo attivismo.
È tra i fondatori del PSIUP. Con l’occupazione nazista e repubblichina del 1943 fonda un’officina per fare da schermo alla sua vera attività — la stampa clandestina. Viene arrestato nel luglio del 1944 e condotto in carcere a Monza, dove viene torturato. Il 10 agosto successivo, insieme ad altri 14 partigiani, viene fucilato in piazzale Loreto come rappresaglia per il ferimento di alcuni tedeschi. I corpi vengono lasciati esposti tutto il giorno come monito per la popolazione.
Il fatto, definito dal tribunale chiamato a giudicare la SS Theo Saevecke ormai negli anni ‘90 “un atto terroristico verso la popolazione,” inasprì l’animo dei cittadini milanesi verso gli occupanti tedeschi. A Principato e agli altri fucilati è dedicata solo una targa in piazzale Loreto. Una via gli è però stata dedicata dal comune di Vimercate (MB).