Ora che si sono concluse entrambe le convention del Partito Repubblicano e del Partito Democratico negli Stati Uniti, la sfida per le elezioni presidenziali del prossimo novembre è ufficialmente tra Hillary Clinton e Donald Trump — e si preannuncia una campagna elettorale sanguinosa.
Ma anche nella patria del bipolarismo per eccellenza esistono i candidati terzi, gli outsider che raccolgono percentuali sotto lo zero, quelli che servono soltanto a muovere gli appelli per il voto utile.
Proprio quest’anno, i third party candidates godono di un’inaspettata popolarità, data l’antipatia generalizzata che perseguita i due candidati maggiori. Nessuno di loro ha possibilità di vittoria, ma lo spostamento di voti potrebbe rivelarsi significativo — se non decisivo.
Innanzitutto, bisogna sapere che ci sono tre modi per candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, in un quadro di regole piuttosto complesso (prendete appunti):
- Attraverso la nomination di un partito, che si ottiene con il voto dei delegati alle convention nazionali, dopo tutta una serie di elezioni primarie o caucuses nei singoli stati.
- Come indipendente, chiedendo agli stati di stampare il proprio nome sulla scheda elettorale nazionale: per farlo è necessario raccogliere un numero di firme stimato per questa campagna elettorale poco sopra le 800 mila — si va dal massimo di 178 mila firme richieste dalla California al minimo di 275 richieste dal Tennessee.
- Come candidato write-in, ossia un candidato indipendente il cui nome non compare sulla scheda elettorale, ma può essere aggiunto a mano (o applicando un adesivo fornito dal candidato stesso, in caso di problemi di spelling). Anche in questo caso, però, le regole variano da stato a stato: alcuni prevedono qualche complicazione burocratica, in altri non è proprio possibile candidarsi in questo modo.
I candidati indipendenti — e tantomeno quelli write-in — difficilmente guadagnano gli onori delle cronache, salvo qualche caso eccellente: nel 1992 l’imprenditore texano Ross Perot riuscì da indipendente a ottenere il 19%, dopo una campagna elettorale travagliata, annunciata durante un’intervista televisiva, interrotta e ripresa a distanza di pochi mesi, quando i suoi supporter riuscirono a renderlo eleggibile in tutti i 50 stati. Rappresentando per certi versi un Donald Trump ante-litteram, a un certo punto della campagna i sondaggi lo davano al 39%, davanti ai due principali sfidanti Bush senior e Bill Clinton — che poi avrebbe vinto.
Un risultato migliore di quello di Perot da parte di un candidato che non fosse né democratico né repubblicano era stato ottenuto soltanto da Theodore Roosevelt nel 1912, quando l’ex presidente, mancata la nomination del partito repubblicano, aveva fondato un proprio partito e aveva partecipato ugualmente alla corsa elettorale (poi vinta da Woodrow Wilson) — un po’ come aveva dichiarato di fare in un primo momento lo stesso Trump, se il partito non l’avesse nominato.
Nel 2000 il partito dei verdi (Green Party) sostenne la candidatura di Ralph Nader, un attivista e difensore dei diritti dei consumatori, che aveva già corso come write-in nel 1992 e con un appoggio semi-ufficiale del partito nel 1996. Con il suo 2,7% — pur non essendo riuscito a far comparire il nome sulla scheda elettorale in tutti gli stati — fu accusato da molti di aver causato di fatto la sconfitta di Al Gore, battuto di misura da George W. Bush (insomma la guerra in Iraq è colpa sua).
Anche quest’anno i verdi sono tra i protagonisti del variegato universo dei candidati third party: la loro candidata Jill Stein, sessantasei anni, medico e attivista ambientalista, laureata a Harvard, sta guadagnando un’attenzione sempre maggiore da parte dell’elettorato progressista deluso dalla sconfitta di Bernie Sanders e incapace di digerire Hillary Clinton. La nomination ufficiale, insieme al vice Ajamu Baraka, è avvenuta sabato 6.
I'm the @GreenPartyUS presidential nominee with my VP running mate @ajamubaraka. Thank you! <3 #GNCinHOU pic.twitter.com/xA53cvgjhE
— Dr. Jill Stein🌻 (@DrJillStein) August 7, 2016
Con lo slogan It’s in our hands, il programma di Jill Stein è incentrato sulle tematiche dello sviluppo sostenibile: al primo punto c’è il proposito di un “Green New Deal” che porti alla creazione di milioni di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili, operando una completa transizione entro il 2030. “Gli americani meritano soluzioni reali per le crisi economiche, sociali e ambientali che ci si prospettano,” si legge sul sito della campagna. E quindi non solo ambientalismo, ma anche diritto al lavoro, salario minimo federale di 15 dollari, azioni di contrasto alla povertà, estensione del programma di sanità pubblica, abolizione del debito studentesco, uguaglianza di razza e di genere, taglio della spesa militare del 50%.
Il programma del Green Party è senza dubbio quello più radicale a sinistra che un elettore statunitense possa scegliere. Ma per il momento il partito è riuscito ad ottenere l’accesso alla competizione soltanto in 23 stati – sarà una corsa contro il tempo, mentre i sondaggi prevedono un magro ma dignitoso 3,5%.
Meglio piazzato è Gary Johnson, il candidato del Partito Libertario, che i sondaggi danno al terzo posto dopo Clinton e Trump. Governatore repubblicano del New Mexico dal 1995 al 2003, Johnson è stato candidato del Libertarian Party anche nel 2012, ottenendo lo 0,99% – più di tutti gli altri candidati minori messi insieme. Il partito – che esiste dal 1971 – è su posizioni di liberalismo classico: riduzione della spesa pubblica, abolizione del welfare state, anti-proibizionismo, dottrine economiche improntate al laissez-faire. In un’intervista, Johnson si è definito “più conservatore, dal punto di vista fiscale, dei repubblicani, ma con una voce più liberale di quella dei democratici” (criticati, per esempio, per il programma di sorveglianza di massa).
Insomma, il Libertarian Party è un prodotto americanissimo. E con gli ultimi sondaggi tra il 7 e il 10%, potrebbe essere davvero il terzo incomodo di questa tornata elettorale, attirando il consenso degli elettori repubblicani che sposano la linea #NeverTrump (mentre l’elettorato di sinistra potrebbe essere dissuaso dal votare per Jill Stein, proprio per scongiurare un’eventuale vittoria del tycoon repubblicano).
(Nota importante: a contendersi il titolo di candidato del partito libertario c’era anche John McAfee.)
Dopo Stein e Johnson, a dividersi le briciole di ciò che resta si trova una vera e propria folla di candidati indipendenti o sostenuti da formazioni politiche minori. Sono già più di 1800 le persone che hanno compilato un ufficiale Statement of Candidacy presso la Commissione Elettorale Federale — ma tra loro si trova un gran numero di buontemponi con tanta voglia di trollare la burocrazia federale.
C’è anche il mai dimenticato Phuc Dat Bich, ovviamente.
I candidati veri tuttavia sono spesso altrettanto poco verosimili. Tra i più grossi c’è il conservatore Constitution Party, che schiera quest’anno il sessantottenne Darrell Castle, autodefinitosi ancora più libertario del candidato del partito libertario (!). All’opposto dello spettro politico, il Partito Socialista dei Lavoratori — di ispirazione marxista, nato nel 1938 da una costola del Partito Socialista americano — candida Alyson Kennedy, attivista sindacale, ex minatrice di carbone e impiegata attualmente in un Walmart a Chicago, dove sostiene la campagna per l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari.
Con lo slogan Make America Healthy Again, invece, il candidato del Nutrition Party è Rod Silva, fondatore della catena di ristoranti “fast casual” Muscle Maker Grill. Il suo obiettivo primario è combattere la piaga della cattiva alimentazione negli Stati Uniti. “Temi come l’economia, la politica estera e la riforma fiscale sono importanti, ma se non viviamo abbastanza per godere i benefici di questa grande nazione, a che serve?” si legge sul suo sito.
E a proposito di allungamento della vita, non si può non citare il transumanista Zoltan Istvan, il candidato che vuole sconfiggere la morte, mentre Dan Bilzerian, campione di uno stile di vita certamente poco sano, sembra aver dato alla fine il proprio supporto a Donald Trump, dopo aver illuso i propri fan con l’annuncio di una campagna in prima persona.
Folclore a parte, secondo il Pew Research Center da diversi anni il numero degli americani che si definiscono indipendenti supera tanto i democratici quanto i repubblicani, ed è in costante crescita. Durante lo shutdown del governo federale a ottobre 2013, un sondaggio condotto da Gallup riportò che il 60% dei cittadini statunitensi sentiva il bisogno di una grande forza politica terza, dato il fallimento dei due partiti tradizionali.
Jill Stein e soprattutto Gary Johnson ottengono le percentuali di gradimento maggiori tra gli elettori più giovani, come giovanissimo è stato il supporto alla campagna elettorale dell’outsider per eccellenza Bernie Sanders. La definitiva incrinatura del bipolarismo statunitense potrebbe essere soltanto rinviata di qualche anno.