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In questi anni Bali è diventata una delle isole più rinomate dell’arcipelago indonesiano e ha attirato un flusso inarrestabile di turisti, che nel 2017 erano 5 milioni in più rispetto al 2009 secondo l’ufficio del turismo di Bali.
Un piccolo angolo di paradiso tropicale, dove templi indù si alternano a distese di risaie e spiagge chilometriche di sabbia bianca. Questa è Bali, o meglio una sua idealizzazione che non sempre corrisponde al vero. La realtà di questa piccola isola indonesiana è molto più articolata di quello che sembra, e i cambiamenti che ha subito nel tempo sono molti ed evidenti agli occhi di chi la conosce bene.
Bali è una delle 17508 isole che compongono l’arcipelago indonesiano e ha accolto solo nel 2015 più di 4 milioni turisti stranieri, una porzione che costituisce già il 41% dei turisti annui di tutta l’Indonesia secondo le statistiche elaborate dall’ufficio centrale del turismo balinese.
Dei tanti turisti che viaggiano a Bali per godere delle sue bellezze naturali e concedersi una pausa spirituale, c’è chi si trattiene per ben più di un paio di settimane. Sono infatti molti gli expat che risiedono stabilmente a Bali e che hanno dato vita a proprie attività commerciali, approfittando anche della possibilità di godere di un tenore di vita di qualità a prezzi molto più accessibili di quelli occidentali. Secondo l’ufficio turistico di Bali, le principali nazionalità europee presenti a Bali sono quella inglese e francese, seguite da tedesca ed italiana.
Abbiamo parlato con due membri della folta comunità italiana residente a Bali, M. e B., che considerano l’isola il proprio rifugio fisico e spirituale. B. è arrivata nel 1981, a bordo di un piccolo aereo traballante, attirata dai racconti entusiastici di amici, e da quando ha messo piede sull’isola non è più riuscita a separarsene. Qui ha infatti costruito delle case e aperto tre negozi di abbigliamento, accessori e di pezzi d’arredo nella zona più frequentata dell’isola, Seminyak. Anche M. è stata stregata fin da subito da quelle che lei definisce “energie magiche” di Bali, e ha scelto questo lembo di terra in mezzo all’oceano indiano per costruire una casa vedica dove dedicarsi alla meditazione e passare il tempo con i suoi cari. Persone come loro conoscono Bali quasi al pari degli abitanti locali, e sanno descriverci, a volte con un accenno di nostalgia nella voce, come hanno visto cambiare l’isola nel tempo.
Al suo arrivo 38 anni fa, B. ricorda un’isola profumata di chiodi di garofano e un’accoglienza calorosa. Le costruzioni non erano più alte degli alberi da cocco, collegate da poche strade e circondate da risaie e distese di alan alan, l’erba resistente ed allungata usata per la costruzione dei tetti delle case. Anche le macchine erano pochissime e il mezzo di trasporto principale era la bicicletta. Il cambiamento che la colpisce maggiormente è la radicale diminuzione di spazio “vitale” a disposizione.
Oggi la visuale del cielo è oscurata da grovigli di fili elettrici ed alti edifici, ci dice B., e le strade si moltiplicano e diramano, congestionate dal traffico tipico delle grandi metropoli. Alberghi e villette private si susseguono senza interruzione attaccate le une alle altre, ed ogni centimetro libero è ora messo a frutto dai proprietari locali per costruire e affittare a prezzi sempre più alti. Anche M. ricorda una situazione molto diversa da oggi al suo arrivo nel 2001, quando le mucche pascolavano fuori dal suo giardino e poteva arrivare alla porta di casa soltanto passando tra distese di risaie secche. Tuttavia secondo entrambe, seppur lo stile di vita e la gestione degli affari dei balinesi siano cambiati per molti versi, alcuni aspetti dell’identità locale restano immutati. I riti e le cerimonie stabiliti dal calendario balinese caratterizzano infatti un impegno fisso e prioritario a qualsiasi altro per la comunità locale.
In questi anni Bali è diventata una delle isole più rinomate dell’arcipelago indonesiano e ha attirato un flusso inarrestabile di turisti, che nel 2017 erano 5 milioni in più rispetto al 2009 secondo l’ufficio del turismo di Bali.
Nonostante l’affluenza di stranieri e piccoli e grandi investitori a Bali, il governo indonesiano sembra voler cercare di preservare la terra nelle mani dei proprietari originari.
Una legge agraria varata nel 1960, “hak pakai”, regola tutt’oggi la gestione delle terre e stabilisce che “solo i cittadini indonesiani possono essere proprietari della terra” (articolo 9). L’articolo 21 stabilisce poi in modo esplicito che “gli stranieri non possono essere proprietari nominali della terra.” Chi oggi costruisce una casa o un albergo a Bali può quindi prendere in affitto una porzione di terra dai proprietari balinesi per un periodo ben definito, ma non ha diritto a diventarne l’intestatario. Un “trucco” molto diffuso tra gli acquirenti stranieri è quella di passare per un “prestanome” indonesiano per comprare in modo definitivo la terra e diventarne a tutti gli effetti i proprietari. I contratti durano normalmente dai 25 ai 30 anni e il pagamento avviene tutto in una volta al momento della stipulazione del contratto, che può poi essere rinnovato per un numero illimitato di anni. Oggi però i prezzi sono aumentati esponenzialmente, e il valore della terra è stimato sui centimetri piuttosto che sui metri al fine di massimizzare il profitto derivante dagli affitti. B. ricorda che la sua prima casa, costruita su un totale di 34 are (l’equivalente di 3400 metri quadri) le era costata approssimativamente 7000 dollari, mentre oggi rinnovare il suo affitto della terra, che conta metà delle are originarie, le verrebbe a costare almeno 100 mila dollari all’anno. Secondo B. da un aumento così esponenziale dei prezzi deriva anche una diversa gestione dello spazio libero a disposizione rispetto al passato. Mentre prima le grandi case private sorgevano in aree spaziose e godevano di ampi giardini, gli affitti a caro prezzo hanno spinto gli acquirenti a concentrare la costruzione di villette e grandi alberghi su superfici sempre più ristrette. Gli investitori che sono arrivati a Bali per investire in questo settore provengono da ogni parte del mondo: Europa, Australia, Nuova Zelanda, Cina ma anche dalla stessa Indonesia. A questo tipo di affaristi si affiancano quelli che investono in attività nel settore della ristorazione e del commercio di artefatti e pezzi d’arredo, sfruttando i prezzi convenienti delle materie prime e la disponibilità di manodopera abile a lavorarle.
La speculazione edilizia ha stravolto l’economia dell’isola, che è ormai strettamente dipendente dal turismo e dall’andamento del mercato internazionale. La maggioranza dei locali non sembra essere maldisposta nei confronti di chi acquista e costruisce sulle loro terre, e ha trovato il modo di usufruire dei cambiamenti per migliorare il proprio tenore di vita. Lo sviluppo del settore turistico ha aperto nuovi sbocchi professionali: donne di servizio, guardie notturne, tuttofare, cuochi e massaggiatori a domicilio sono ora più richiesti sia dagli expat che dai turisti, diversificando il mercato del lavoro.
L’isola si è mediamente arricchita: secondo Indonesia: Strategic Vision for Agriculture and Rural Development, una pubblicazione firmata dalla Asian Development Bank e dal Ministero dell’Agricoltura, Bali, dal 1997 al 2002 ha visto diminuire drasticamente il numero di abitanti sotto la soglia di povertà: sull’isola è l’8,25% della popolazione, un dato sostanzialmente diverso dalla media dell’Indonesia, dove il 21,1% della popolazione vive nella povertà.
Sono comunque molti anche i balinesi che hanno preso posizioni antagonistiche nei confronti di progetti invasivi, promossi di solito dal governo centrale e dai ricchi imprenditori indonesiani.
Ne sono dimostrazione le manifestazioni in opposizione al progetto di bonifica della baia di Benoa (200 ettari di mangrovie, 5 fiumi e villaggi), redatto nel 1994 da PT Bali Benoa Marina e atto a creare una megastruttura turistica, destinata a comprendere resorts di lusso, complessi di centri commerciali, un parco divertimenti e un campo da golf. L’alleanza civile “ForBali” ha evidenziato i danni ambientali e le minacce di allagamento per i villaggi vicini alla zona che questo progetto comporterebbe. Nel luglio 2015 circa 1500 persone hanno manifestato fuori dall’ufficio del governatore di Bali. Il progetto per il momento è in stallo e la decisione finale spetterà a Jakarta.
L’avvento del turismo e il boom di investimenti ha inevitabilmente cambiato la struttura societaria e lo stile di vita dei balinesi. Il settore agricolo sta cedendo sempre più spazio a quello dei servizi legati al turismo, dove le nuove generazioni di balinesi cercano sbocchi lavorativi, abbandonando spesso i terreni e le risaie coltivati per decenni dalle famiglie per andare ad abitare in città. Lo stile di vita delle popolazioni locali resta frugale, anche se usufruiscono di qualche servizio in più — tra cui l’accesso alla corrente elettrica e mezzi di trasporto motorizzati. Sopravvive l’uso delle famiglie di abitare nella stessa casa così come l’osservanza dei riti religiosi, collante che unifica la società balinese e ne mantiene viva l’identità culturale.
La singolarità culturale e religiosa di Bali la distingue da tutte le altre isole dell’arcipelago indonesiano, essendo la sola a praticare l’induismo. Le potenzialità di investimento in un settore turistico in continua crescita, sommate alla svalutazione della rupia seguita alla crisi finanziaria asiatica nel 1998, hanno attirato sull’isola capitali esteri e regionali, e di conseguenza lavoratori indonesiani in cerca di impiego.
Oltre ai grandi investimenti di ricchi indonesiani, infatti, molti giovani indonesiani arrivano a Bali da Java, Sumatra e isole vicine per lavorare come operai o aprire piccole attività nel settore del turismo, come scuole di surf e baracchini sulla spiaggia. La storia di J. a Bali comincia proprio così. Originario di Sumatra, dopo aver passato qualche anno a lavorare a Jakarta, che lui definisce caotica, si è trasferito a Bali con un gruppo di amici e ci risiede da ormai 10 anni, tornando a casa solo una volta all’anno per celebrare il Ramadan con la propria famiglia. Inizialmente ha lavorato in un negozio di arte e poi, una volta imparato a fare surf e parlare inglese, ha affittato una porzione di spiaggia dove disporre dei lettini e dare lezioni di surf a pagamento ai turisti. Quando gli chiediamo se le folle di stranieri che vengono a Bali lo infastidiscono, ride divertito e sostiene che a tutti i balinesi piacciono i turisti, perché portano i soldi e il divertimento. Quando menzioniamo Hak Pakai e gli chiediamo se la trova una legge giusta, sostiene di essere d’accordo con questo provvedimento, perché Bali non può diventare “cinese” come Singapore e perdere la sua tipicità.
Molto diversa appare la percezione dell’isola che hanno persone come B. e M., che pur considerandola tuttora unica e speciale, sono consapevoli che la gentrificazione che ha subito per effetto del turismo l’ha spogliata di molte delle sue bellezze. Tuttavia non si possono scambiare i balinesi come abitanti impotenti che subiscono in modo passivo gli effetti del turismo e della globalizzazione in senso più largo, venendo “contagiati” da influenze esterne, ma sarebbe una visione troppo semplicistica e quasi paternalistica. È giusto che un popolo partecipi allo sviluppo che lo tocca direttamente, e che ne usufruisca. La popolazione locale ha saputo infatti gestire un fenomeno di immigrazione di persone e capitali di portata enorme, che ha investito la sua piccola isola con una forza prorompente, e tramutarla in forza economica, ma anche sociale, non pregiudicando il nocciolo culturale dell’isola. E forse è proprio qui che sta la maggior forza di Bali, destinata a rimanere sempre tale nonostante gli strati in più di cemento e di smog che vanno accumulandosi.
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