Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Coordination denied è il libro di Jacob Balzani Lööv e Rosy Sinicropi, realizzato con la ONG Vento di Terra in Israele. Il titolo prende spunto dal rifiuto da parte delle autorità israeliane competenti a concedere l’accesso a Gaza ai due autori.
Un libro che nasce con una premessa che sconvolge le carte e da realizzarsi, oltretutto, in una delle aree più complesse del mondo. La delicatezza con cui viene trattato il dialogo improvvisato sui social che si instaura tra gli autori e i loro soggetti è in grado di trasmetterci, attraverso la scelta dell’uso consapevole della bellezza — un gelato, una fragola, un selfie, una pianta — il lato umano delle persone. Il libro lascia immaginare profumi, rumori, parole di chi vive all’interno di un’area di cui conosciamo solo un lato. Attraverso le fotografie di Jacob, Rosy e naturalmente dei ragazzini, ritroviamo per una volta persone: uomini, donne, bambini; genitori, figli, fratelli, sorelle, amici.
Il libro verrà presentato martedì 6 novembre alle ore 19:30 presso la Libreria Volume, Via Palatini 8, Milano. All’incontro saranno presenti, oltre gli autori, la giornalista Laura Silvia Battaglia e Barbara Archetti, direttrice di Vento di Terra.
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Dato che questo lavoro è frutto di, in parte, uno spiacevole inconveniente, raccontereste quali erano le vostre intenzioni originarie?
Jacob Balzani Lööv: Il programma era di andare a Rafah, a sud della Striscia di Gaza, come parte di un progetto di attività psicosociali organizzato dalla ONG Vento di Terra. L’idea era, ed è tuttora quello che vogliamo continuare a proporre, di permettere ai ragazzi di fare un percorso di autonarrazione. Partiamo da una esplorazione del sé attraverso l’autoritratto — Rosy è bravissima — per proseguire nel percorso insegnandogli a raccontare storie che li riguardano, più o meno semplici a seconda dell’età. Secondo noi è un lavoro molto importante, soprattutto con chi ha subito violenze e traumi, perché permette di osservare sé stessi e la propria quotidianità dall’esterno, scoprendo, chissà, qualcos’altro della propria persona che la nostra interiorità nasconde.
Inoltre vogliamo creare storie che possano essere condivisibili, ovviamente con il consenso dei nostri soggetti. Curiamo molto il set e l’aspetto formale negli autoritratti per poter creare delle storie coinvolgenti a livello visivo per il pubblico.
Quando avete saputo che non avreste potuto fare quello che avevate progettato come avete reagito e come vi siete riorganizzati? Quali sono state le motivazioni che hanno dato nel negarvi l’accesso, avete avuto modo di approfondire?
Rosy Sinicropi: Ci è stato negato l’ingresso tre volte e l’ultima a poche ore dalla partenza. È Israele a decidere chi ha diritto o meno di accedere a Gaza e la motivazione ufficiale è stata che il nostro lavoro di fotografi non è compatibile con attività di tipo umanitario. Dopo il gelo iniziale e l’incredulità, sono passata alla rabbia. Il senso di orgoglio ferito e di sfida ha poi preso il sopravvento e ho cominciato a riflettere se fosse stato possibile fare qualcosa da remoto. Decidiamo di partire lo stesso, un po’ smarriti. Durante il viaggio prende forma un’idea, completamente diversa dalle intenzioni iniziali: dialogare con loro attraverso le immagini. Arrivati a questo punto vogliamo comunque parlare con loro, non vogliamo accettare che non sia possibile. Decidiamo dunque che chiederemo agli interessati di fotografare sé stessi, i loro dintorni o quello che gli sta a cuore e noi faremo lo stesso, auspicando che tra di noi si crei passo dopo passo un clima di fiducia reciproca.
Arriviamo al vostro arrivo in Israele: volevo sapere se per voi era la prima volta e in generale quali sono state le vostre sensazioni, emozioni, a parte il lavoro che avete svolto.
J.B.L.: Sia per me che per Rosy era la prima volta. Da una parte la Terra Santa è un luogo incredibile in cui si sono svolte tante delle vicende su cui sono basate la religione ebraica, cristiana e islamica. Visitare questi luoghi dal vivo ti fa capire l’intreccio che lega le tre; basti pensare alla tomba di Abramo ad Hebron, all’interno di una moschea, che contiene una sinagoga al suo interno. Dall’altro il tema dell’oppressione. Israele è infatti oggi conosciuto a livello visivo soprattutto per gli alti muri divisori che ha costruito dopo la seconda intifada. Non bisogna cercarli, sono ovunque, facili da fotografare e a mezz’oretta dall’aeroporto. Quello che non ci aspettavamo è quanto sia diventata normale la divisione tra oppressi e oppressori. E pazzesco pensare che una volta attraversato il checkpoint dotato di metal detector e passerelle recintate tra Betlemme e Gerusalemme, dove ogni mattino alle cinque una calca pazzesca di palestinesi provano a raggiungere il loro posto di lavoro fuori Betlemme, si trovano enormi pubblicità turistiche con le scritte “Visitate Israele!”.
La prima conversazione che riportate è con un bambino/a che vi chiede se avete paura di lui/lei solo perché è musulmano, sottolineando che legge molte voci in tal senso sui social media. Ci volete dire cosa avete risposto e, in generale, come sono state le conversazioni con loro?
R.S.: Prima di tutto sono dei ragazzini. Hanno tra i 12 e i 14 anni circa, una fase in cui, di solito, i ragazzini cominciano a guardare fuori dal loro contesto famigliare e ad osservare il mondo. Comunicare attraverso i social è molto diverso e limitante che di persona, bisogna riuscire a creare un clima di fiducia, anche da parte nostra. È difficile capire se la foto che ti hanno mandato è loro o l’hanno presa da internet o dallo smartphone che gli ha prestato la sorella più grande. Alcuni ragazzini sono già esperti nell’uso dei social network, altri meno, ma tutti sono esaltati dall’idea di poter comunicare con l’esterno. Non è evidente a tutti ma se sei circondato da recinzioni e gente che ti spara significa che a Gaza esiste, come nelle prigioni, chi sta dentro e chi sta fuori.
Spesso eravamo più noi a parlare e a rispondere alle loro foto. Ma é così anche nella realtà quotidiana, quando un adulto dice o chiede qualcosa ad un ragazzino di quell’età, le risposte non sono sempre esaurienti! Quando Jana ha insistito per chiamarmi su messenger, sia io che lei avevamo la voce tremante per l’emozione, era la prima volta che parlava con una persona che non fosse della sua terra. Dopo aver parlato del più e del meno e averle mandato le foto di mia figlia che ha dieci anni, ci chiede se abbiamo paura di loro perché sono musulmani. Questo mi riporta alla realtà e mi sento impotente, mi viene da piangere, per la rabbia, per l’angoscia, penso che potrebbe essere mia figlia, penso di non sapere cosa scriverle. Le scrivo semplicemente, come ha fatto lei, la verità. “No, non ti odio. No, non ho paura di te.” Noi volevamo incontrarli. Non abbiamo potuto.
Da una parte ci siete voi che attraverso la fotografia interagite direttamente con chi subisce delle violenze, dall’altra una fotografia che invece le simboleggia diventando icona (il riferimento è alla fotografia di Mustafa Hassona che nell’ultima settimana ha fatto il giro del mondo.) Cosa pensate dei valori che una fotografia può trasmettere, se è in grado di farlo e come può farlo?
J.B.L.: È una domanda complessa su cui si potrebbe parlare per ore. Sia la foto di un bambino che fotografa suo padre che la foto di un protestante a torso nudo mentre scaglia la fionda tenendo la bandiera palestinese hanno carattere documentario, ovvero cercano di raccontare un evento. Poi per tutta una serie di motivi una particolare foto potrà diventare più o meno iconografica ma non voglio disquisire su questo. Per me c’è un importante differenza tra la foto di Hassona e le nostre. Una fotografia di un bambino che fotografa il gelato che sta mangiando con un suo amico è universale, non è facilmente manipolabile dai media. Al contrario una foto violenta, verrà vista dai pro-palestinesi come un virtuoso simbolo di protesta mentre verrà utilizzata dai media israeliani per giustificare le loro azioni. Per un israeliano gli abitanti di Gaza sono tutti pericolosi come il personaggio della foto in questione mentre quello che vorremmo passasse attraverso il libro è che a Gaza sono esattamente esseri umani come noi. Si tratta di ri-umanizzare queste persone. E questo l’abbiamo imparato soprattutto io e Rosy perché abituati solo alle immagini che passano sui giornali non ci immaginavamo una Gaza fatta di serre piene di rose e di persone che cercano di vivere una vita normale nonostante le difficoltà. È solo attraverso il dialogo che possiamo capire l’altro e quando questo viene reso difficile, costruendo muri o facendo disinformazione, allora può succedere che l’altro non diventi più uomo ma diventi un insetto che si può schiacciare senza troppi sensi di colpa.
Parliamo del libro. Lascio a voi raccontare lo sviluppo del layout, sequenza, testi.
R.S.: Non entrerò troppo nei dettagli perché rovinerei le sensazioni che speriamo di suscitare in chi lo sfoglia. Dovevamo fare una pubblicazione per Vento di Terra ma non volevano assolutamente ricadere nel cliché dei bambini sorridenti, volevamo fare qualcosa che non trasmettesse non solo l’idea di un obiettivo raggiunto ma che permettesse al pubblico di pensare. Inizialmente la ONG aveva trovato il titolo Coordination Denied troppo incentrato sulla nostra esperienza; siamo poi riusciti a convincerli che quello era l’angolo giusto per introdurre il problema e lasciare che i ragazzi si raccontassero da sé. Un permesso negato che noi abbiamo provato sulla nostra pelle per pochi giorni, è la vita di tutti i giorni per i palestinesi. Farci autoritratti da mandare ai ragazzi è stata un po’ la nostra forma di protesta. Quando poi ci siamo confrontati con la grafica, Roberta Donatinit, ci è subito piaciuta l’idea di usare le nostre foto come un muro che contenesse le foto dei ragazzi. Dà un po’ l’idea di sbirciare attraverso il muro di quel luogo proibito che è Gaza.
Rosy Sinicropi è una fotografa che arriva dal lavoro sociale. Ha tenuto laboratori di fotografia in realtà diverse, come scuole, carceri, centri per disabili e centri di accoglienza. Utilizza la macchina fotografica per spingere i suoi allievi ad avere uno sguardo su se stessi e fermarsi a contemplare la loro storia personale
Jacob Balzani Lööv, fotografo e giornalista, ama esplorare storie di persone profondamente attaccate al proprio territorio, sia questo una zona contesa o una giungla tropicale. Nato a Milano ha pubblicato nelle maggiori riviste internazionali e fotografa dall’Italia per il quotidiano svedese Dagens Nyheter. Il sito sito internet è jacobbalzaniloov.com. Su Instagram è jacob.balzani.loov