foto: NASA
Il contenzioso territoriale con le Filippine si è concluso con un verdetto che Pechino non accetta.
L’area in questione è il Mar Cinese Meridionale, dove il governo di Pechino ha installato basi militari, ha monopolizzato i commerci e costruito isole artificiali inquinando l’area.
Queste azioni sono state contestate perché la Cina non ha diritto di esercitarle, mentre Pechino rivendica sovranità territoriale sul 90 per cento circa del Mar Cinese Meridionale per motivi storico-politici.
Il contenzioso è particolarmente acceso circa Scarborough Shoal, uno scoglio a 250 km dalle coste di Manila e a 900 da quelle cinesi che secondo i cinesi rientra nella categoria di isola, così da poter esercitare diritti sull’area circostante, la Zona Economica Esclusiva, ZEE – si tratta del territorio compreso nel raggio di 200 miglia intorno ad un’isola dove lo Stato sovrano può sfruttare risorse e territorio. Ma Scarborough Shoal è un cumulo di scogli che affiora dal mare di non più di due metri, e in questo caso la ZEE è di sole 12 miglia. Eppure la Cina si è appropriata dell’area costruendo zone militari, piste di atterraggio, porti.
Manila si è opposta a questo e altri sconfinamenti di Pechino e l’Aja le ha dato ragione.
“La Cina ha violato i diritti sovrani delle Filippine nella sua zona economica esclusiva interferendo con i loro diritti di pesca e di esplorazione petrolifera costruendo isole artificiali e senza impedire che pescatori cinesi agissero nell’area”
Il verdetto dell’Aja si basa sulla convenzione Onu Unclos United Nations Convention on the Law of the Sea di cui la Cina è firmataria dal 1996. L’Unclos prevede la supervisione dei giudici dell’Aja in questo tipo di questioni. Il contenzioso è stato sollevato dalle Filippine che hanno fatto ricorso nel 2013 alla Corte Permanente Arbitrale dell’Aja, un organo intergovernativo nato nel 1899.
Pechino ha rifiutato l’arbitrato dell’Aja rifacendosi alla cosiddetta nine-dash line, nove linee che delimitano l’area di influenza territoriale cinese e che corrispondono al 90 per cento dell’area in questione. Risalgono a una carta formulata e poi entrata in vigore tra i governi Chiang Kai Shek nel 1947 e Zhou Enlai nel 1949.
Gli interessi economici che entrambi i Paesi hanno sull’area sono di prima importanza nell’analisi di questa “crisi del mare”. Oltre a essere una zona piena di risorse petrolifere e naturali, è stato calcolato che nel Mare Cinese Meridionale transitano 5mila miliardi di dollari di merci negli scambi con l’Asia. La Cina l’ha quindi trasformata in un’area portuale militarizzata e controllata.
I primi a opporsi a questo monopolio sono gli Stati Uniti che pretendono che il libero scambio nel Mar Cinese Meridionale venga rispettato.
Washington si è allineata contro la Cina con i Paesi circostanti l’area, ma dopo la sentenza ha dichiarato di non voler prendere posizione a favore o contro gli alleati filippini — gli Usa non sono firmatari dell’Unclos, quindi non potrebbero di fatto prendere posizioni influenti a riguardo, ma non hanno comunque rinunciato a far sentire la propria presenza sul posto e hanno mandato delle unità della US Navy nel “lago personale cinese” aumentando la tensione.
Le conseguenze del non rispettare una decisione internazionale potrebbero essere gravi, ma probabilmente Pechino accetterà il verdetto gradualmente come afferma l’avvocato internazionale Paolo Busco al Corriere della Sera.