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foto: Polizia di Stato

Bernardo Provenzano, la primula rossa, il fantasma di Corleone, il mafioso che per decenni ha tenuto in scacco lo Stato si è spento oggi, 13 luglio 2016, all’età di 83 anni – di cui 43 passati in latitanza, la più duratura in tutta la storia della mafia italiana.

Inizialmente ritratto dai media come un padrino avventato e vendicativo, al pari di Totò Riina, e reso celebre dalla strage di Viale Lazio, uno dei crimini più cruenti compiuti da Cosa Nostra, la maggior parte degli italiani si ricorderà di lui come Binnu u’ tratturi: uno sterminatore, che laddove passa non cresce più l’erba.

In realtà Provenzano è stato un uomo dai molti volti. Il macellaio del Trapanense getta la maschera nel marzo del 1992, quando veste i panni dell’ingegner Lo Verde per recarsi a casa di Vito Ciancimino, a Palermo, al quale confida: “Riina sta prendendo una piega che non mi piace. Gli hanno riempito la testa di minchiate. Qualcuno gli ha promesso, garantito, qualcosa di grosso, veramente grosso. Ha intenzioni brutte.”

In quel momento Riina sta meditando di organizzare un periodo stragista spietato e serratissimo — non solo minacciando di far esplodere una bomba ogni giorno dell’anno, ma addirittura di riempire le spiagge dell’Italia intera con siringhe infettate di AIDS — con cui mettere in ginocchio lo Stato e costringerlo ad accettare i punti del cosiddetto papello, una lista di richieste allo Stato da parte dei vari boss di Cosa Nostra, fra cui Provenzano.

Secondo le ipotesi investigative di alcuni giornalisti e dei PM Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo, Provenzano non avrebbe mai gradito una guerra allo Stato, poiché egli era abituato a trattarvi, attraverso i legami che aveva stretto con la politica e con le forze dell’ordine deviate.

U’ tratturi comprende che la strategia di Riina avrebbe messo in pericolo il sistema di convivenza tra Stato e mafia, che dopo tanti sforzi criminali era riuscito ad instaurare, e quindi interviene per fermarlo.

Sempre secondo le testimonianze emerse dai processi, sembra che Provenzano abbia lasciato agire Riina e anzi lo abbia messo in contatto con gli esponenti eversivi dei servizi segreti, da cui avrebbe ottenuto il sostegno logistico e la copertura necessarie per eseguire con successo l’assassinio di Falcone – che aveva scoperto i legami tra mafia, imprenditoria e massoneria – e Borsellino — che pochi giorni prima di morire scoprì l’esistenza di una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra.

Quindi Provenzano avrebbe venduto Riina ai ROS, segnalandone il nascondiglio su una cartina di Palermo consegnata poi a Massimo Ciancimino, ottenendo in cambio l’approvazione, da parte dello Stato, di alcune pretese contenute nel papello.

Riina infatti viene catturato a pochi metri dal suo covo il 15 gennaio del 1993, e solo cinque giorni prima, il 10 gennaio 1993, l’allora ministro degli interni, Nicola Mancino, aveva dichiarato fermamente “prendiamo Riina.”

Provenzano era un abile stratega, un burattinaio che trama nell’ombra e che pur di sopravvivere colpisce alle spalle indistintamente nemici e alleati. Uno dei suoi soprannomi era infatti “il ragioniere,” da intendersi come “colui che ragiona, che pensa.”

È il mafioso che ha guidato l’“inabissamento” di Cosa Nostra, che dopo la fine delle stragi del 1992-93 sembra definitivamente sconfitta, ma in realtà è solo diventata silenziosa, e nel 1994 diventa più potente che mai, riuscendo a infiltrare i suoi uomini, Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, nell’entourage del nuovo partito politico sorto dalle ceneri di Tangentopoli: Forza Italia.

Uomini che, stando alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, avrebbero messo l’Italia intera nelle mani della mafia.

A riferire molti dei particolari che portarono alla cattura di Provenzano, avvenuta nel 2006, fu Luigi Ilardo, ex-mafioso infiltrato nel 1995 dentro l’organizzazione per volere di Michele Riccio, colonnello dei ROS.

Proprio il caso Ilardo mostra di quali protezioni godesse Provenzano, che poteva muoversi liberamente in tutta la Sicilia e in tutta Italia senza il timore di essere arrestato, in modo analogo a quanto accade oggi a Matteo Messina Denaro.

In particolare, l’infiltrato era riuscito a raggiungere fisicamente il boss corleonese il 31 ottobre 1995 al cosiddetto Summit di Mezzojuso, e aveva segnalato data e luogo dell’incontro al colonnello Riccio, che da tempo stava preparando le squadre dei ROS in attesa dell’occasione giusta per catture Binnu.

Eppure, proprio alcuni giorni prima del meeting, il dipartimento dei ROS si trova in difficoltà: mancano i mezzi e gli uomini per portare a termine l’arresto, che infatti non avviene, mentre Ilardo verrà scoperto e assassinato  da Cosa Nostra il 10 maggio del 1996, prima di poter diventare a tutti gli effetti collaboratore di giustizia.

Sorpreso dalle forze speciali l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, Provenzano sussurrò agli uomini che lo stavano strattonando fuori ammanettato: “non sapete quello che state facendo.”

Come dire, “non è ancora stata decisa la mia cattura,” forse ignaro del fatto che alla fine lo Stato ha scaricato anche lui.