Ripercorrendo con l’occhio e con la memoria le città che ho attraversato nel viaggio, noto che quasi tutte sono sull’acqua, su fiumi, su estuari, sul mare, piccoli porti, grandi porti o porti di passaggio. Non c’avevo fatto caso, pianificando il l’itinerario. È vero che l’acqua rilassa e le città sui corsi d’acqua hanno un vento bellissimo che le attraversa. Così Rotterdam, nuova, architettonicamente complessa, che si apre sul suo fiume. Forse ne ha fin troppo, di vento.
Il signore che ho incontrato sul treno per Amsterdam, il professore, anche se non so se sia effettivamente un professore, mi ha raccontato che Rotterdam è stata bombardata per errore dai Nazisti durante la guerra. L’Olanda si era già arresa, ma ormai gli aerei erano in volo, e siccome c’era troppo sole i piloti non hanno visto i segnali di resa disegnati sulla terra. E hanno raso al suolo la città. Che poi è stata ricostruita alla moderna. Così me l’ha detta lui, poi non sono andata a controllare che fosse tutto vero, mi sembrava uno che sapeva il fatto suo, oltre al suo essere oltremodo indignato che non mi fermassi a visitare Amsterdam, molto più bella, non importa che io ci sia già stata.
Mi piace stare seduta sulle rive e guardare le barche che passano, e il cielo, grigio, muoversi. Sono imprevedibili questi cieli del Nord, si muovono, sono più profondi dei nostri cieli mediterranei, che al confronto quasi me li figuro claustrofobici, anche se più caldi, più accoglienti.
Poi però, essendoci i fiumi, c’è il problema dei ponti. Dell’attraversamento dei ponti. Vi ho già accennato, mi pare, del mio problema con l’attraversamento dei ponti? Con le vertigini, intendo.
Soffro di vertigini selettive, mi prendono soltanto in determinate situazioni e mi gettano in imbarazzanti stati di panico. Una delle situazioni è l’attraversamento ponti.
L’unico momento nel corso di questo mio viaggio in cui ho effettivamente pensato di aver fatto una grande cazzata a partire da sola è stato quando ho dovuto attraversare un gigantesco ponte a Varsavia. Lunghissimo. Non finiva più. E non importa quante volte ti ripeti che no, non si muore per attraversamento di ponti, soprattutto non di ponti come questi, belli solidi, fatti per le macchine, la perdita di equilibrio è irrazionale.
Dicono che la vertigine non sia tanto paura di cadere quanto desiderio di farlo. La spiegazione pseudopsicologica non mi convince. Fatto sta, comunque, che per il resto della sosta a Varsavia sono riuscita, in un modo o nell’altro, ad evitare l’attraversamento pedonale di ponti. Cosa che, ahimè, non è possibile a Rotterdam, come non lo è stata ad Amburgo, dove devo dire però che di ponti indispensabili non ne ho incontrati.
Ripeto, ogni volta che mi accingo a compiere la terrificante traversata, la seguente patetica scenetta: guardo il ponte da lontano e ne faccio una stima delle dimensioni con occhio da intenditrice, già non mi piace; mi avvicino con diffidenza, controllando che ci siano effettivamente altri essere umani che lo attraversano; ci sono, peccato, non posso usarla come scusa; esito, giro in tondo sulla riva rimandando il momento cruciale; osservo con occhio critico la cartina valutando se valga davvero la pena di andare a visitare la parte di città che sta dall’altra parte del ponte; è una parte di città considerevole, mi sentirei in colpa a non andarci; continuo a girare in tondo lanciando occhiate torve al ponte in questione; dopo un lasso di tempo che varia dai cinque ai quindici minuti, mi stufo della mia codardia, prendo fiato e salgo sul ponte; lo percorro tutto guardando fissa davanti a me che non si sa mai, magari cado giù se mi fermo a guardare; più o meno a metà del ponte una parte del mio cervello mi fa notare che sarebbe carino fermarsi a fare una foto; l’osservazione viene ignorata, allungo il passo.
Arrivo sempre dall’altra parte viva, in caso aveste dubbi. E tuttavia ogni volta indulgo nella ripetizione dell’errore – ovvero l’attraversamento del ponte, non la paura del farlo. Una precisazione poi: essendo la mia una vertigine selettiva, non tutti i ponti mi gettano in questo stato di sconforto, ma solo quelli molto alti, sui cui passano anche le macchine. I Navigli, per intenderci, li attraverso senza battere ciglio.
A Bruxelles arrivo sul far della sera, ma è estate e c’è ancora una bella luce gialla da pieno pomeriggio, che mi fa morire di caldo sotto il peso dello zaino mentre faccio i miei soliti demenziali giri a vuoto per cercare di raggiungere l’ostello. Non importa quante volte io mi ripeta di segnarmi il percorso stazione-ostello su google maps quando ho wi-fi, non lo faccio mai. Alla fine all’ostello ci arrivo sempre, come infatti succede anche stavolta, nonostante due non indifferenti ostacoli che mi si frappongono davanti: un parco di divertimenti chiuso che mi rifiuto di attraversare e che devo quindi circumnavigare (che poi che diavolo ci fa un parco dei divertimenti chiuso nel centro di Bruxelles) e una comitiva di spagnoli adolescenti che ingombra l’ingresso della reception e si guarda attorno con occhi vacui.Dopo aver scaricato lo zaino, essermi fatta la doccia ed essermi più o meno (più meno che più) rassettata – ho persino indossato un vestito figuratevi, direi che l’ho fatto in onore della capitale europea, ma in realtà è più che altro perché sospetto che i miei jeans inizieranno a breve a camminare per i fatti propri – esco. Voglio procacciarmi del cibo e assimilare le prime impressioni sulla città, sapendo che non c’è ora migliore per le prime impressioni che quella di un tramonto estivo.
Di cibo, come capita piuttosto spesso in questi giorni, non ne trovo. In compenso trovo una birra senza glutine.
È la prima dall’inizio del viaggio, e quindi particolarmente gradita, anche perché sono in Belgio e pare che in ogni angolo ci siano birre di ogni forma e colore.
Trovo un festival cittadino per le vie del centro, musica dal vivo tra i palazzi, luccicanti delle ultime luci della giornata, della piazza principale. Regalano bandierine colorate che considero l’idea di prenderne quattro o cinque per decorare lo zaino, per poi scartarla, che sembro già abbastanza uno spaventapasseri senza bisogno di attirare l’attenzione.
C’è da dire che se ci fosse stato qualcuno con me probabilmente le avrei prese e avremmo fatto gli spaventapasseri insieme. Inizio a soffrire un po’ la solitudine, a tratti. Lo dico senza trarne un senso di sconfitta, fa parte della dimensione del viaggio, viene e va.
In una piazza poco distante, poi, c’è una gara di danza hip hop. Ballerini grandi, grossi e imprevedibili duellano in mezzo a un’entusiasta pubblico di ragazzi, che si agitano e gridano come scalmanati. Mi ci infilo in mezzo, perché, perché no.
(Dimenticavo la polizia. Polizia e militari ovunque.)