Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Raccontare se stessi è uno dei grandi temi della produzione di tanti autori. Quello che ha fatto Alba Zari, e che ci ha colpito, è l’essere riuscita a realizzare un lavoro artistico, prefiggendosi allo stesso tempo uno scopo reale. La sua storia personale l’ha portata a scoprire, all’età di 25 anni, che il padre che aveva creduto fosse quello biologico in realtà non lo era. Così, ha avviato una ricerca con le poche informazioni in proprio possesso, il nome e il lavoro che faceva quando lei è nata. La ricerca, ad oggi, è in costante evoluzione, sia nei linguaggi usati dall’autrice sia nelle piccole scoperte che man mano è riuscita a fare.
Hai appena vinto il premio Graziadei, notizia di qualche settimana fa, come ti senti?
Sicuramente sono molto felice e direi che non me l’aspettavo. Alcune delle persone che hanno partecipato al premio le conosco personalmente, come Giorgio di Noto e Giaime Meloni. Ho molto rispetto e stima per il loro lavoro. È una bellissima opportunità e una motivazione in più per continuare questa ricerca.
Il tuo lavoro è molto eterogeneo, mi piacerebbe sapere qualcosa sulla tua formazione.
Ho iniziato studiando cinema al DAMS di Bologna; in seguito ho fatto un master di fotogiornalismo alla ICP di New York. Da quel momento in poi mi sono allontanata dal percorso classico del fotogiornalismo, quando ho vinto una borsa di studio alla Naba di Milano, seguendo il master di fotografia e visual design.
Raccontaci qualcosa del materiale che hai deciso di utilizzare e creare.
Il lavoro come hai detto prima si serve di diversi supporti effettivamente. Per quanto riguarda la fotografia in sé, diciamo che l’ho utilizzata soprattutto come supporto alla mia ricerca e non come ricerca estetica fine a sé stessa.
Le foto di archivio della mia famiglia le ho dipinte, perché la mia storia familiare è cambiata; anche i ritratti a 360° sono stati realizzati per leggere i caratteri fisionomici delle persone. Tutto quello che ho fatto, a parte le foto in negativo, una parte del lavoro più evocativa, è un supporto per la ricerca sul web. Utilizzo tutti i mezzi che ho imparato a conoscere nel mio percorso formativo per realizzare un unico scopo, quello della ricerca reale. È così che spiego l’utilizzo di diversi meccanismi, di diverse estetiche.
Come hai iniziato questo lavoro? Sembra essere una ricerca iniziata da tempo che ha trovato la sua forma solo più tardi, con il progetto che hai realizzato.
In realtà sto scrivendo un documentario, che sarà la mia prima prova da regista. Il soggetto è basato sulla ricerca, l’investigazione di questo padre che non conosco. Durante un’altra residenza, a Fabrica, ho spiegato che a un certo punto del mio percorso avrei dovuto lavorare proprio a questo documentario. Così mi hanno consigliato, con il supporto di Francesca Serravalle, di iniziare proprio da una ricerca fotografica, di usare la fotografia come metodo di sviluppo per il documentario che avevo in mente.
La volontà di realizzare il documentario c’è sempre stata dunque?
Sì, anche se, cambiando la forma, sarà tutto un altro modo di investigare e raccontare questa storia.
La fotografia diventa un supporto due volte, per la ricerca reale e per la realizzazione del documentario?
Esattamente. Con i produttori siamo ancora alle fasi iniziali, stiamo partecipando a dei bandi, stiamo scrivendo la sceneggiatura più e più volte. Naturalmente per adesso non posso dire nulla di più, bisognerà aspettare.
Ci parleresti della collaborazione con Francesca Serravalle?
Francesca è stata bravissima, durante tutta la mia ricerca mi è stata veramente molto vicina, una persona precisa e molto selettiva. Si tratta di una ricerca di una vita, e dunque nel momento in cui abbiamo iniziato è stata un’esplosione di possibilità, avevamo mille direzioni da poter dare a questa ricerca. Ad ogni indagine o ricerca di informazioni c’era sempre un muro, cerano sempre degli elementi mancanti per cui non potevamo andare avanti, fino in fondo; è per questo motivo che abbiamo dovuto cercare sempre altre vie per andare avanti. Lei è stata sempre molto brava a restare concentrata sul centro della ricerca e ad inserire con coerenza sempre nuove cose.
Il progetto non è solo personale, ma è anche profondamente intimo
Si, mio padre non solo non l’ho mai conosciuto, ma non ho neanche una sua immagine, non ho idea di come sia fatto fisicamente, non so come riconoscermi. Fino ai 25 anni ho pensato di avere lo stesso padre di mio fratello, e per una vita mi sono definita italo-thailandese, per poi scoprire che in realtà ho un altro padre di cui si sa solo il nome e il lavoro che faceva. Non si tratta solo di una mancanza ma diventa un discorso in cui ci si chiede quale sia la propria appartenenza.
Il sottotitolo del lavoro è “RESEARCH OF BIOLOGICAL FATHER”: la ricerca ha dato i suoi frutti o comunque, da quando l’hai iniziata, ti ha aperto nuove strade?
Durante la ricerca ho dovuto raccogliere documenti che potessero confermare alcune questioni riguardanti la mia identità, come il test del DNA, la prova che John, il padre di mio fratello, non fosse anche il mio. Ho fatto anche un’altra scoperta quando ho ritirato il mio certificato di nascita: un’altra persona ancora, un amico di mia madre, aveva firmato il documento. Ho scoperto in quel momento che avevo un’altra figura nella mia vita, ovvero un padre legale. Questa e altre cose mi hanno portato a viaggiare e scoprire luoghi e persone che hanno fatto parte della mia vita a vario titolo.
Il tuo lavoro ha una doppia lettura, quella artistica e quella reale. Quello che mi ha colpito è che il progetto artistico non nasconde mai il fine, ovvero quello reale, la ricerca di tuo padre.
Il lavoro è artistico e sviluppato con i mezzi che ho imparato; in questa maniera riesco a tenere una certa distanza, ad avere un approccio giusto nello sviluppo del lavoro.
La ricerca però è reale, assolutamente. Per farla utilizzo tutti gli strumenti che ho a disposizione. C’è un appello, tutta una serie di elementi reali che contribuiscono a rafforzare questa ricerca. Sono consapevole di aver fatto tutto quello che potevo per riuscire a trovarlo.
Cosa ne pensa la tua famiglia di questa tua esigenza?
La verità è che cerco di portare rispetto verso la mia famiglia facendo sì che sia più una mia ricerca personale: sono io quella che si espone maggiormente. Il tentativo è far sì che non diventi una ricerca voyeuristica.
Ti sei mai chiesta cosa faresti nel momento in cui dovessi riuscire nella tua ricerca?
Mi sono posta questa domanda praticamente nel momento stesso in cui ho iniziato a fare questa ricerca, ne ho parlato tanto anche con Francesca. Se lo trovassi, artisticamente parlando, gli chiederei di fare un ritratto, così come li ho realizzati ad altre persone della mia famiglia, per aggiungerla alla serie. Anche il materiale d’archivio mi interesserebbe tanto.
A livello personale me lo sono chiesta tante volte e quello che mi interessa di più non è tanto l’idea di avere un padre, ma sapere chi è, conoscere la sua identità: e per questo mi basterebbe una fotografia. La vita alla fine va avanti.
Alba Zari nasce nel 1987 a Bangkok. Ottiene la laurea al DAMS di Bologna (indirizzo cinematografico) e si specializza in Visual Design alla NABA di Milano e in fotografia documentaria presso l’International Center of Photography di New York. Lavora come fotografa e si dedica in particolare alla fotografia di contenuto sociale, realizzando progetti sul paesaggio urbano. Tra i suoi lavori piú recenti: l’analisi della comunicazione visuale e della propaganda dello Stato Islamico, le ricerche visive sui centri di igiene mentale dopo la Legge Basaglia, i disordini alimentari diffusi nella società americana e la particolare vegetazione del deserto del Mesr in Iran.
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