Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e su Facebook. Guglielmo Giomi e Tommaso Giovanni Braglia, i due autori del libro “The extraordinary life of an ordinary Lenin,” hanno fatto un lavoro in cui realtà e immaginazione si mescolano senza soluzione di continuità.
Con lo scoccare del centenario del rientro dall’esilio di Lenin dalla Svizzera, ci sono autori come Thomas Dworzak e Davide Monteleone che, credo inconsapevolmente, hanno compiuto un ripasso storico proprio sulle tracce di questo viaggio. Il primo lo ha fatto indagando il presente di quei luoghi, il secondo ha provato a ricreare il passato, talvolta mettendosi nei panni stessi di Lenin.
“The extraordinary life of an ordinary Lenin” in questione fa tutt’altro. Giomi e Braglia hanno deciso di non fare grandi viaggi, ma si sono imbattuti in un Lenin di tutti i giorni tra le pianure emiliane: hanno trovato Lenin Montanari. Agricoltore, poeta, commediografo, anarchico: “Più che un agricoltore, mi sento un anarchico dell’agricoltura,” così si definisce il loro Lenin.
Il libro parte da un testo che racconta del Lenin russo, per poi confondersi con Montanari man mano che si procede nella lettura. Così le fotografie: la prima è un ritratto “colorato” di Lenin — scelta per cui si può spezzare una lancia a favore, in questo caso — per poi iniziare a tratteggiare il ritratto del Lenin ordinario, tra foto di repertorio, frasi e fotografie di quello che segna la sua vita.
Il gioco su cui si basa il libro è questo intreccio continuo tra le due storie, dove però, alla fine, emerge sicuramente la personalità di Lenin Montanari, il vero soggetto del progetto. Scrive bene Alessandra Lanza nel suo testo critico: “In queste fotografie c’e un gioco sottile, ma genuino, che si fa strada a partire da un buon selvaggio che ha rinunciato a essere mito, per prendersi cura di se stesso. Non è questa la rivoluzione?”
Il vostro lavoro è un processo di costruzione dell’identità di Lenin Montanari attraverso il Lenin della rivoluzione o il contrario?
Il lavoro che abbiamo fatto in principio è quello di “obliterare” Vladimir Ilyich Ulyanov. Abbiamo voluto che le persone richiamassero alla mente tutto ciò che per loro era il Lenin storico e lo mettessero da parte, un po’ come sta facendo il mondo globalizzato adesso. In tal modo abbiamo voluto spostare lentamente l’occhio su di un altro personaggio, che attraverso varie ideologie, fatalismo, fortuna e volontà ha costruito una piccola utopia domestica. Abbiamo ritenuto che la storia di Lenin Montanari, rappresentata in modo evocativo piuttosto che documentario, suscitasse interesse ma soprattutto ponesse delle domande riguardo la linea di confine tra ideale e reale oggi.
Cosa vi ha fatto scegliere proprio la figura di Lenin, da approfondire?
Nell’era della falsificazione universale e della manipolazione visiva organizzata, dire la verità è più che mai un gesto rivoluzionario, e sarebbe assurdo negare che Lenin abbia rivestito un ruolo rilevante nel sistema politico dell’URSS. Lui ha creato un qualcosa in cui credere e per cui impegnarsi, in un particolare momento storico. Le sue parole erano seguite da tutti i leader sovietici, i ritratti stilizzati e i busti sono diventate delle icone, la sua biografia idealizzata come il Vangelo e il leninismo come le Sacre Scritture, trasformandosi in una figura sacra, una sorta di paradossale “santo comunista.” Il mausoleo dove è custodito è diventato simbolo della dedizione, e visitarlo è compiere quasi un pellegrinaggio. Di recente, il presidente Putin, ha affermato questa similitudine religiosa, aggiungendo che Dyadya Lenin (“nonno Lenin” in italiano) è senza dubbio il fondatore della moderna Russia.
Come siete entrati in contatto con Lenin Montanari?
Reggio Emilia è una realtà provinciale, per chi sa muoversi bene non è così difficile conoscere un po’ tutti. Un caro amico ci ha suggerito di conoscere quest’uomo e, mossi dalla curiosità insita nel nome abbiamo accettato. Non avevamo idea di che storia si celasse dietro ad un nome già così straordinario di per sé.
Cosa vi ha portato a voler raccontare la sua storia?
La prima cosa che ci ha colpito di quest’uomo è stata la sua verità d’animo, una limpidezza che sfiora l’assurdo. Niente di costruito, di preparato o di impostato, l’ambiente e l’aura che lo circondano richiamano, a distanza di tempo, mode, epoche e rivoluzioni, ancora intatte e genuine. Nei suoi racconti abbiamo riscontrato qualcosa di troppo originale e autentico: valori, idee e pensieri lungimiranti racchiusi nel corpo di un comune contadino e negli oggetti che sono attorno a lui, anonimi ma che godono di una luce particolare dovuta al ruolo che hanno rivestito nella sua vita. La sua è una storia che non poteva non essere raccontata.
Il progetto è stato realizzato grazie al supporto di Fotografia europea. Come è andata?
Abbiamo partecipato nell’edizione 2017 del festival con una piccola mostra all’interno del circuito OFF. Il progetto raccontava una sorta di viaggio che abbiamo fatto a vicenda nel passato e nella storia della famiglia dell’altro, utilizzando i rispettivi archivi fotografici dei nonni, e documentando o evocando gli effetti visibili ed effimeri insiti in tale scarto temporale. Con questo progetto, chiamato What else is there?, abbiamo ottenuto il primo premio tra i partecipanti del circuito OFF, e quindi la possibilità di esporre un nuovo progetto nell’edizione seguente.
Nella realizzazione di questo libro ho visto che sono intervenute diverse persone. Come è stato il percorso dall’idea alla realizzazione?
Da tempo avevamo in mente l’idea di cercare una minoranza, una comunità o un piccolo paese dove la vita quotidiana procedesse in modo diverso rispetto a tutto il resto del mondo globalizzato. Un giorno, facendo ricerca, è saltato fuori il nome di Lenin Montanari, assieme a diverse leggende su di lui. Così abbiamo deciso di andarlo a trovare, e in un pomeriggio ci siamo resi conto come nella sua fattoria e nella sua persona vivessero dei caratteri unici, degni di un utopista pragmatico, come abbiamo voluto definirlo. Sicuramente i suoi racconti, assieme a quelli di sua moglie e le figlie (che ci hanno ospitato gentilmente per vari giorni) ci hanno reso un quadro della sua vita. Successivamente, con tutto il materiale raccolto, Matilde Losi ed Alessandra Lanza ci hanno dato una mano nel ristabilire una connessione chiara tra le varie parti della sua vita e tradurre determinati concetti in parole. Dal punto di vista fotografico, editoriale e di allestimento della mostra invece è stato vitale l’aiuto fornito da due grandi esperti del settore: Joan Fontcuberta e Ilaria Campioli.
Guglielmo Giomi (Piombino, 1995) Durante gli studi universitari inizia a lavorare come visual designer e nel 2017 si laurea in Design della Comunicazione presso il Politecnico di Milano. Vincitore di Fotografia Europea 2017 Circuito OFF assieme a Tommaso Braglia con il progetto “What else is there?”. Dopo la laurea lavora in una rivista online e nel dicembre 2017 fonda con Pietro Giovanardi e Irene Manetti lo studio di visual design Appartamento Studio (Firenze), dove attualmente lavora come art director.
Tommaso Giovanni Braglia (Correggio, 1988) Laureato in Architettura degli Interni ed Allestimenti presso il Politecnico di Milano. Appassionato di fotografia, collabora per le edizioni 2016 e 2017 con lo staff di Fotografia Europea a Reggio Emilia, e per l’edizione 2017 di Photolux Festival a Lucca, in qualita di exhibition assistant. Vincitore, insieme a Guglielmo Giomi, del Circuito OFF 2017, con il progetto “What else is there?”, dal 2018 si traferisce a Barcellona (Spagna), dove assiste il fotografo Joan Fontcuberta.