I grandi progetti architettonici nell’Amazzonia stanno rendendo inabitabili territori che prima erano fonte di sostentamento per le comunità indigene, con il silenzio della istituzioni, spesso complici delle società private che finanziano tali progetti.
Quelli dell’Amazzonia sono fiumi che hanno visto molte cose che oggi, purtroppo, stentiamo a ricordare. Il sangue che le loro acque hanno portato via non è l’unica memoria che rischia di scomparire. Nei giornali di tutto il mondo la foresta amazzonica è spesso utilizzata come hashtag per parlare di problemi su scala internazionale (#disboscamento, #clima, #biodiversità), ma le sue storie difficilmente riescono a oltrepassarne i confini.
È passato appena un mese da quando “o deslocamento” di alcuni individui della tribù Mebêngôkre (Kayapó) ha avuto luogo, l’ultimo di una serie di spostamenti forzati cominciati nel 2012 e previsti in un rapporto del 2009 dell’EIA (Estudo de Impacto Ambiental). L’esodo di questo popolo indigeno della regione amazzonica del Mato Grosso non è il solo.
Diverse tribù autoctone sono state confinate per continuare la realizzazione del complesso idroelettrico di Kararaô (oggi Belo Monte Dam) e della miniera a cielo aperto (Belo Sun), sul fiume Xingu, nonostante le numerose proteste e petizioni, iniziate nel 1989 col famoso gesto dell’indigena Tuìra che mise la lama del suo macete sul volto di Jose Antonio Muniz, presidente di Eletronorte, azienda elettrica fondatrice del progetto.
Come gli uomini anche gli animali trovano le loro difficoltà — guardando il fiume non si vede l’orizzonte, ma tra le onde tre delfini rosa cavalcano controcorrente. Li chiamano boto e, secondo una leggenda che qui tutti amano raccontare, sono i seduttori delle giovani fanciulle. Purtroppo per questi animali c’è il rischio estinzione a causa delle costruzioni delle dighe: mentre sono impegnati a risalire il rio si trovano di fronte una barriera, e dal momento che non possono continuare si altera il corso dei loro cicli vitali.
L’impianto di Belo Monte sarà terminato nel 2019, la sua costruzione ha già coinvolto un totale di 400 mila ettari di foresta, dove vivono molte specie animali e vegetali, oltre che diverse comunità locali e indigene. Il progetto dell’impianto idroelettrico rischia di essere al centro dell’ennesimo disastro ambientale che colpisce non solo il Mato Grosso, ma anche il vicino Parà, danneggiando soprattutto Altamira, il comune più esteso del Brasile (160 000 km²), con una superficie poco più grande della Grecia.
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Il complesso di Belo Monte sarà uno dei più grandi al mondo grazie all’autorizzazione da parte del FUNAI e dall’IBAMA, gli enti brasiliani che tutelano rispettivamente gli indigeni e l’ambiente.
Non è la prima volta che si violano le leggi che garantiscono i diritti delle tribù indigene per favorire la costruzione di mega-progetti appartenenti alla “green” economy. In Rondonia – nel nord ovest del Brasile – si trova Porto Velho, una città che in pochi decenni è cresciuta fino a contare 430 mila abitanti, incrementando la richiesta di energia elettrica. All’inizio degli anni 2000 si è discusso sul suo fabbisogno energetico e si è optato per una centrale che sfruttasse la potenza dell’acqua del Rio Madeira, l’affluente più grande del Rio delle Amazzoni.
La proposta è stata avanzata dell’IIRSA (Iniciativa para la Integraciòn de la Infraestructura Regional Sudamericana), realtà che più volte si è trovata al centro di inchieste sui piani di sviluppo. Prima della costruzione delle dighe gli abitanti dei piccoli villaggi si sono opposti con la campagna “Viva o Rio Madeira Vivo,” promosso dall’Institudo Madeira Vivo, ponendo attenzione sui danni ambientali che si sarebbero potuti verificare. Tuttavia l’IBAMA — l’Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle risorse Ambientali — nel 2006 ha approvato il progetto dell’IIRSA.
Con un’opera d’ingegneria, a cui ha partecipato, oltre che Eletronorte, anche l’impresa di costruzioni Norberto, sono state realizzate due lunghe dighe (Jirau e Santo Antônio) che attraversano il fiume provocando, come previsto, danni ambientali e umani. Nel 2014 una parte del fiume ha inondato strade, distruggendo case e raccolti — i ribeirinhos della comunità di San Sebastião, che si trova dall’altra parte del fiume rispetto a Porto Velho, sono dovuti fuggire all’interno della foresta trovando riparo in punti dove l’acqua non è arrivata. Si sono salvati, ma hanno perso barche, campi, case e tutto ciò che esse contenevano. A distanza di quattro anni il governo, così come la centrale, non ha mai indennizzato gli abitanti. Il villaggio, da 137 nuclei familiari, è passato a sole 13 famiglie.
La maggior parte di loro non vuole parlare di ciò che è successo, nei loro volti lo sconforto è un segno indelebile. Camminando per la via principale, fatta da una passerella di legno che costeggia il rio, molte case sono in stato d’abbandono, così come il centro culturale, la scuola e la chiesa. Una famiglia che alleva galline e pappagalli ci mostra il livello raggiunto dall’acqua durante l’inondazione — lo si intuisce guardando le pareti esterne di ogni casa, dove il colore naturale della tinta cambia. Questo perché per mesi le case sono rimaste parzialmente sotto il livello dell’acqua.
Una donna assieme al fratello e alla figlia ci portano da alcuni parenti che abitano lì vicino in mezzo alla finestra. Due uomini sono sulla riva di alcuni piccoli laghi che si sono formati con l’inondazione nella speranza di catturare qualche pesce. La bimba raccoglie delle lunghe piume di un uccello nero e bianco per fare degli orecchini, mentre la madre si ferma a raccogliere dei frutti da portare ai genitori. I due anziani hanno perso molti alberi da frutto nella loro proprietà, alcuni sono marciti altri invece sono circondati da grandi pozzanghere d’acqua.
Dopo l’accaduto, queste persone sono rimaste perché è qui che si trovano le loro radici, la loro storia, la loro vita. Per questo che hanno deciso di ricominciare, nonostante siano consapevoli che da un momento all’altro potrebbero assistere ad un’altra grave inondazione.
La centrale idroelettrica del Rio Madeira, inoltre, ha espropriato alle tribù Karitiana e Karipuna una grossa fetta del territorio che utilizzavano per le coltivazioni di sussistenza e per la pesca. Una parte della comunità indigena ha deciso di abitare nella foresta più profonda, mentre un’altra parte è stata costretta a spostarsi in una zona limitrofa di Porto Velho, nella Casa do Indio, in quanto alcuni di loro studiano o hanno un piccolo lavoro in città. Come per gli abitanti di San Sebastião, anche gli indigeni vivono in condizioni precarie e a stento riescono a costruirsi una nuova vita. Il FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio) – che in Brasile si occupa delle politiche riguardanti i popoli indigeni – ha promesso loro una sistemazione più dignitosa, ma a distanza di anni ancora non si è visto un cambiamento.
A marzo del 2018 Adriano e André Karipuna sono scesi a Brasilia per rivendicare le terre della loro comunità, mentre i Karitiana hanno eletto a gennaio di quest’anno come portavoce un indio di 23 anni. Il giovane si chiama Cledson Pitana e con grandi sacrifici economici familiari sta portando a termine gli studi universitari per poter aiutare il suo popolo. “Il nostro più grande problema è il fatto che molti di noi non hanno studiato o non hanno la possibilità economica per farlo,” ci racconta Pitana. “Nessuno di noi vorrebbe stare qui in città, ma lo dobbiamo fare perché non esistono mezzi che collegano Porto Velho al nostro villaggio e noi non abbiamo macchine. Così siamo costretti a vivere qui, col nostro artigianato, in abitazioni che a stento chiamiamo case. All’esterno noi non contiamo nulla perché non abbiamo un titolo di studio, ma stiamo cercando di integrare le nostre conoscenze con quelle imposte dalla società predominante, forse così un giorno ci accetteranno, e a quel punto si potrà parlare allo stesso livello.”
Gli indigeni sono una ricchezza antropologica, non solo per il valore della loro cultura, ma anche per alcune conoscenze che altre società hanno perso nel tempo in nome dello sviluppo, così come il senso di comunità soppresso dall’individualismo. Un tesoro che è continuamente sottovalutato dai molti cittadini brasiliani, che vedono gli indigeni come delle sanguisughe che vivono sulle spalle del governo e delle associazioni. Camminando per gli edifici semidistrutti delle due comunità indigene ed entrando nelle loro case vuote la realtà però sembra un’altra, peggiore di quella riscontrata nelle favelas sparse in questo enorme paese. Nella Casa do Indio gli abitanti sono stati abbandonati, senza acqua e luce, in un luogo pieno di cani, gatti e macachi infestati di pulci con cui i ragazzini stanno a contatto. Le stanze non si possono chiamare tali, arredate con oggetti abbandonati, qualche pentola ferruginosa e dei sacchi bianchi sgualciti che si usano per conservare il riso.
In un sottotetto un gruppo di indios è impegnato a cucire orecchini e intagliare la punta legnosa di alcune frecce che venderanno al mercato dell’artigianato vicino alla vecchia stazione porto-velhense di una ferrovia fantasma. Nella stradina affianco, un’india cammina con un uomo. La si vede spesso perché tra tutte è quella più riconoscibile: indossa degli short attillati e ha i capelli tinti di un giallo aranciato. È sempre in compagnia di uomini diversi, ma nessuno degli altri indigeni accenna a lei.
Poco distante un indio raccoglie la radice di una pianta e sorridendo ci dice di succhiarla. Ha un sapore aspro e dopo qualche minuto la bocca inizia a formicolare, perdendo sensibilità. La usano come antidolorifico, ogni pianta che coltivano ha un suo valore, spiega l’uomo, ma le parole si perdono tra il rumore assordante delle cicale. Sfregando le loro ali se ne stanno annidiate sulla corteccia di enormi alberi appartenenti a quella che una volta era una terra piena di vita.
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Tutte le foto dell’autrice.
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