Dal trionfo del Movimento 5 Stelle alla strategia comunicativa della Lega di Salvini, una conversazione con Leonardo Bianchi per cercare di interpretare l’esito delle elezioni.
Sono passati quattro giorni e ancora non è facile dare un’interpretazione del voto di domenica scorsa, che ha visto da un lato la netta affermazione del Movimento 5 Stelle e la crescita esponenziale della Lega, dall’altro il collasso del Partito democratico. Per alcuni si è trattato del trionfo delle forze populiste e anti-sistema, in linea con un trend in atto in tutte le democrazie occidentali — così la vede, tra gli altri, l’ex stratega di Trump Steve Bannon; altri hanno sottolineato invece la capacità del M5S di occupare il vuoto lasciato dalla sinistra, presentandosi come il nuovo volto dell’establishment — una riedizione della Democrazia cristiana o addirittura una versione italiana del “macronismo.”
Ne ho parlato con Leonardo Bianchi, news editor di VICE Italia e autore de La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, uscito a ottobre per minimum fax e perfetto per inquadrare la situazione politica in cui ci troviamo.
Ciao Leonardo, a rileggere il tuo libro dopo il risultato di domenica sembra quasi una profezia: dalla “rivoluzione” dei Forconi alle barricate contro i richiedenti asilo nel Ferrarese, il successo della Lega e del Movimento 5 Stelle si capisce meglio guardando indietro a tutti gli spazi che queste due forze politiche hanno saputo occupare, praticamente indisturbate, negli ultimi cinque anni. Immagino quindi che lunedì tu non fossi particolarmente sorpreso.
Sono stato sorpreso solo dalle percentuali che ha preso la Lega in generale, e il Movimento 5 Stelle in certe aree del Sud, dove ha fatto più del 50% — mi aspettavo andassero bene, ma non così tanto. Per il resto no, non sono sorpreso dal risultato, perché certe tendenze erano già ben visibili e radicate da tempo. La prima grossa protesta dei Forconi nel 2012, ad esempio, bloccò per cinque giorni la Sicilia: fu da un lato ridicolizzata, mentre dall’altro tacciata di essere manovrata dalla mafia.
Le rivendicazioni principali erano però molto concrete, e cioè legate a tasse, lavoro e disoccupazione. Il tutto era poi cementato dall’opposizione alla “casta” regionale — e nazionale — che ormai non riusciva più ad assorbire quelle richieste con il clientelismo o la vecchia gestione della politica. Sei anni dopo, buona parte di quella classe dirigente è stata spazzata via definitivamente dal voto di domenica scorsa.
Quindi si può dire che abbia vinto la gente?
Più che una vittoria della “gente,” secondo le varie definizioni che riprendo nel libro, è stata una vittoria di chi ha saputo intercettare la vasta gamma di sentimenti che ha accomunato la rivolta contro la politica tradizionale negli ultimi anni. Durante una presentazione che ho fatto a Roma, Vanni Santoni ha dato una definizione della “gente” per sottrazione: la gente è tutto ciò che non è la casta. Se la intendiamo sotto questo punto di vista, sì, si può parlare di una vittoria della gente. Ma comunque un voto di questo genere è molto complesso da interpretare, e va scomposto in tutti i suoi aspetti.
In effetti è difficile applicare lo stesso discorso alla Lega, che non può accreditarsi tanto facilmente come “anti-casta.”
La Lega è il partito più vecchio nel panorama politico italiano: ha governato più volte a livello nazionale negli ultimi vent’anni e governa regioni importanti come Veneto e Lombardia ormai da quasi dieci anni — è pienamente dentro le istituzioni da un bel pezzo. Ma nella sua costruzione retorica e ideologica c’è sempre stata e ci sarà sempre una certa allure di rivolta, costruita ad arte, contro il “sistema,” anche se nella realtà delle cose — come ha scritto l’antropologa Lynda Dematteo — la Lega usa la retorica anti-sistema per farsi sistema. Dopo aver preso in mano il partito ai minimi storici, Salvini come prima cosa ha rinfocolato proprio la retorica anti-partitica che ha sempre contraddistinto la Lega sin dalle sue origini. Questa componente c’è ancora, anche se non è più predominante come qualche decennio fa: la mutazione impressa da Salvini, con la svolta sovranista e nazionalista, è sicuramente una lettura più adatta per capire il 17% della Lega. Già dal 2014 c’erano delle tendenze in atto che Salvini ha saputo intercettare: spalleggiato dal sistema mediatico, è stato martellante su alcuni temi forti per un elettorato di destra sempre più radicalizzato — la sicurezza, l’anti-europeismo, e così via — riuscendo da un lato a recuperare voti dall’astensionismo, dall’altro a cannibalizzare Forza Italia.
A proposito della volontà di farsi sistema attraverso l’anti-sistema, in molti ora vedono questa stessa tendenza anche nel Movimento 5 Stelle, soprattutto dopo la presentazione della “squadra di governo” di Di Maio prima delle elezioni. C’è stato anche un endorsement più o meno velato da parte di Confindustria, mentre si leggono in giro paragoni con la Democrazia cristiana. Si può ancora parlare del M5S come movimento gentista e anti-casta?
Secondo me assolutamente sì. Chiaramente, quando un partito arriva a più del 30% non c’è più un singolo fattore che lo definisce. Se nel 2013 sicuramente la maggior parte dei voti è stata contrassegnata dalla rivolta contro i partiti tradizionali, cinque anni dopo questa continua ad essere una componente fondamentale della retorica e della propaganda grillina, ma non è più il motivo principale che spinge gli elettori a votarli. Il partito è cambiato in profondità negli ultimi cinque anni e la figura di Luigi Di Maio è l’emblema di questo cambiamento. Da un lato si è voluto presentare come geneticamente antagonista alla casta, ma anche cercando di rimpiazzarla e sostituirla, rappresentando un’alternativa credibile di governo. La presentazione della squadra di governo ha suscitato ironia e si è parlato di mossa propagandistica, secondo me in realtà ha inciso parecchio.
Tu l’avresti prevista questa svolta del M5S? All’inizio si diceva che non sarebbero mai riusciti a emanciparsi dalla figura di Grillo e che sarebbero sempre rimasti un partito verticistico legato al leader carismatico.
La figura di Grillo in realtà è ancora centrale. Quando la giunta Raggi ha avuto dei problemi nei primi sei mesi, è stato Grillo, come garante, a intervenire per mettere ordine nel caos. Durante questa campagna elettorale c’è stata una netta divisione dei ruoli fra le tre figure apicali del movimento, Grillo, Di Maio e Di Battista: Grillo è stato molto in ombra — lui stesso ha detto che “è finita l’epoca dei vaffa;” Di Battista ha ricoperto la funzione del trascinatore, ma non candidato, come primo attivista, mentre Di Maio chiaramente ha fatto il candidato premier. La politologa Nadia Urbinati, che cito nel libro, colloca i 5 Stelle nella famiglia del gentismo e non in quella del populismo proprio perché manca la figura di un leader che cerca voti e consenso, che nel populismo è essenziale. Grillo e Casaleggio non si sono mai candidati — sono sempre stati dei leader più a livello di opinione, comunicazione e direzione interna. Il M5S rimane una formazione politica nuova sotto tutti i punti di vista, molto difficile da leggere, con una grande abilità di mutare la propria ragione d’essere in funzione del momento politico e degli orientamenti che riesce a captare nell’elettorato. Non so se questa formula potrà durare all’infinito — di sicuro finora si è dimostrata efficace.
Di Maio ha detto: con il voto del 4 marzo è iniziata la Terza Repubblica, che sarà la Repubblica dei Cittadini.
I 5 Stelle nella loro retorica hanno sempre utilizzato la parola “cittadini,” è una cifra caratteristica del loro discorso. Dal V-Day in avanti, Grillo ha usato molto poco la parola popolo o popolazione, rispetto a cittadini e gente, che sono termini talmente comuni da poter essere utilizzati come contenitore vuoto da riempire a piacimento. Quanto all’inizio della Terza Repubblica, è curioso notare che non è la prima volta che ne parlano: l’avevano fatto addirittura nel 2012, dopo l’elezione del primo sindaco in assoluto della loro storia, a Sarego, un piccolo paesino in provincia di Vicenza. È già la seconda volta, insomma.
La maggior parte delle interpretazioni del risultato di domenica non è andata oltre affermazioni generiche tipo “la gente è stanca,” senza mai che si specifichi che gente sia stanca di cosa. Cosa ne pensi?
Anche questo è un contenitore vuoto, ognuno ci mette dentro quello che vuole: è una frase che non spiega niente. Nessun elettore va a votare mosso da una singola istanza, ma per un insieme complesso di fattori. Spiegazioni di questo genere non servono assolutamente a niente e, come scrivo nel libro, rientrano tra gli artifici retorici e comunicativi che servono a coprire manipolazioni o responsabilità politiche che hanno nomi e cognomi. Per esempio a Gorino, dopo le barricate contro i richiedenti asilo, Renzi — pur dicendo che non era quella l’Italia in cui si riconosceva — aveva aggiunto un “ma,” dicendo che la popolazione era “molto stanca e preoccupata.” E non si capiva bene di cosa, dato che a Gorino non c’era mai stato un migrante. Un anno dopo anche alcuni abitanti del paese si sono dissociati da questa narrazione, accorgendosi di esser stati manipolati e di aver fatto la figura, come dicono loro, dei razzisti.
A proposito di Renzi: la comunicazione del Partito democratico ha oscillato tra un maldestro tentativo di infilarsi nello stesso filone gentista — con le pagine Facebook buongiorniste che all’improvviso hanno sostenuto il Sì al referendum, o con pagine ufficiose come Matteo Renzi News — e un atteggiamento di forte opposizione contro le varie tendenze complottiste o no-vax — penso per esempio ai manifesti elettorali che invitavano a “votare la scienza.” È stato un disastro da entrambe le parti?
Due requisiti del tipo di comunicazione gentista sono l’artigianalità e la spontaneità del messaggio — quella del Pd non ha funzionato perché si vedeva chiaramente che era calata dall’alto. Un discorso diverso va fatto per la comunicazione ufficiale, che è stata cambiata e calibrata più volte a seconda delle fasi del partito e della campagna elettorale. Dalla pagina di un partito come il Pd ti aspetti una comunicazione abbastanza istituzionale, in linea con la tendenza maggioritaria di quel partito — anche se poi abbiamo visto non essere tale — non i meme con scritto “fai girare” e “condividiamo,” che ti alienano la base e ti attirano le critiche di chi detiene il predominio comunicativo su quelle forme di espressione. C’è stata una grossa difficoltà a trovare la quadra dal punto di vista comunicativo.
Forse si è trattato anche di un tentativo di superare quel divario tra centro e periferia, élite e persone comuni, che si imputa non soltanto al Pd ma alle forze di centrosinistra praticamente in tutta Europa.
La comunicazione però riflette la linea politica: se la linea politica non è chiara, la comunicazione di conseguenza non sarà chiara. Se manca l’humus politico da cui trarre dei messaggi, è normale che ci sia uno sbandamento generalizzato della comunicazione, e il risultato è questo miscuglio contraddittorio — da un lato messaggi gentisti, dall’altro iper-istituzionali o addirittura “blastanti.”
Si discute da parecchio sulle possibilità di esistenza di un “populismo di sinistra.” A questo giro elettorale mi è sembrato di vedere un tentativo in questa direzione nella comunicazione di Potere al popolo: per la prima volta un movimento esplicitamente di sinistra, che non si maschera dietro post-ideologismi di sorta, ha cercato di adottare uno stile comunicativo diretto, immediato, superando — per intenderci — la verbosità da cliché dei movimenti di estrema sinistra.
Sì, e in questo non ci vedo nulla di male, però non rientra nella categoria del gentismo. Dipende molto dal contenitore e dal contesto, non solo dalla forma grafica. Quando il Pd ha cercato di recuperare il gentismo nella campagna referendaria del 2016 non l’ha fatto sulla sua pagina o sui suoi canali ufficiali, ma nelle pagine buongiorniste o con meme appositi. Non penso che PaP sia classificabile così.
Per quanto riguarda la possibiltà di un populismo di sinistra, c’è già: Podemos si rifà esplicitamente alle teorie di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, nel tentativo di rimuovere l’accezione peggiorativa dal termine “populismo.” Ma anche Syriza in Grecia è considerato da alcuni studiosi — a ragione o no — come un partito populista: per vincere le elezioni nel 2015 ha costruito una contrapposizione tra due gruppi separati e omogenei, i Greci e la Troika, ossia un “popolo” puro e l’élite corrotta. Funziona fino a un certo punto: Podemos è al 19% — che è tanto, ma era nato con premesse diverse. Syriza invece si è trovata in una situazione drammatica e impossibile da risolvere, per cui probabilmente alle prossime elezioni non andrà bene.
Per fare un discorso del genere deve esserci un contesto adatto, quello che Chantal Mouffe e Íñigo Errejón chiamano “situazione populista.” Dopo il movimento 15-M, in Spagna il senso comune e l’opinione pubblica si erano spostati da una certa parte in maniera spontanea: Podemos ha fatto un discorso populista perché poteva farlo. Personalmente in Italia ora non vedo nessuno spazio per un discorso di questo tipo, da sinistra. Quella finestra temporale non si riaprirà più: non a caso neanche il Movimento 5 Stelle non fa più i discorsi che faceva nel 2012-2013.
Insomma, niente di buono all’orizzonte.
Beh, comunque nessuno nel 2010-2011 avrebbe previsto gli sbocchi politici, sociali e culturali che si sarebbero aperti in Italia o in Spagna o altrove. La storia non è scolpita in un tocco di granito, ovviamente, è un processo di cambiamento costante. Il voto di domenica sta a testimoniare che in questi cinque anni i cambiamenti sono stati tantissimi. Tra cinque anni potrebbe esserci uno scenario completamente diverso, e non necessariamente negativo.
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cover via Twitter, @luigidimaio
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