“La cosa bella della musica è proprio questa, che basta andare a tempo e puoi dire certe cose.”
foto di Francesca Motta
Venerdì 17 novembre siamo stati ai Magazzini Generali per l’ennesimo sold-out di Willie Peyote. Abbiamo visto un’intera band sul palco, compresi tre fiati, fare rap benissimo, abbiamo visto il locale pieno di mani quasi costantemente alzate e sentito il pubblico cantare tutto a memoria dall’inizio alla fine quasi come fosse un concerto di Coez.
Dato che ad ottobre è uscito il suo quarto album, Sindrome di Tôret, e visto che quest’album sta andando tantissimo, abbiamo deciso di fare due chiacchiere con Guglielmo per conoscerlo meglio e capire da dove vengano quei pezzi a metà tra il rap, il rock e il cantautorato italiano.
Mi piacerebbe parlare con te di tante cose Willie, con molta calma, ma visto che non abbiamo tantissimo tempo partiamo da quelle importanti: hai visto Italia-Svezia?
Ahah certo, non me l’aspettavo — ci sono rimasto malissimo. Io, come sai, seguo molto il calcio e Ventura lo conosco bene: ma non c’erano idee e se c’erano erano discutibili (come non far giocare Insigne). I giocatori ci sarebbero anche ma è andato tutto storto, anche se…
Anche se?
Tutto sommato non me ne fotte un cazzo, io tifo il Toro.
Ne parli spesso infatti, il calcio direi che è un bell’esempio di uno degli argomenti che non hai avuto paura di proporre in un certo tipo di ambiente, che poi rappresenta i fan che ti ascoltano.
Sì il calcio è una bella metafora della vita, giocare a calcio mi ha insegnato tanto. Si gioca in tanti modi diversi e ognuno ha la sua posizione e i suoi compiti, sia in campo che allo stadio. Io lo uso spesso perché insegna che giocare di squadra aiuta, e funziona come vedrai stasera sul palco: il bassista è il regista, il batterista il difensore, il frontman è l’attaccante; tutto è gruppo armonico.
Gaber stesso, grande maestro non compreso fino in fondo, diceva che “non sei un intellettuale se non ti piace il calcio,” invece parlando con un sacco di gente in giro sembra che snobbare il calcio faccia di te una persona acculturata.
Parliamo di cultura e valori, sì. Una tua frase che ti descrive bene è “se da zitto sembro hipster ti zittisco quando parlo.” Sembra che il calcio appartenga, nei tuoi testi, ad un tentativo più ampio di rifiuto, consapevole, di valori universalmente riconosciuti appartenente a un certo tipo di intellettuale che finiscono per non essere altro che narcisismo.
Sì tantissimo, non mi piacciono le cose finte tutto qua. Abbiamo creato un sacco di castelli in aria finti e vuoti, io cerco di spazzare via un po’ tutto mostrando le contraddizioni di questa classe acculturata in cui ci troviamo. Vorrei ripartissimo da cose più genuine. Ti sembro nichilista? Anche il nichilismo, come la cultura, è usato ormai troppo spesso per descrivere un disagio che la maggior parte delle volte nasconde un bisogno di attenzione
Non credo però esista frase più vicina a Nietzsche che “cerco di spazzare via un po’ tutto,” quello che mi hai trasmesso però non è solo questo, è anche proprio il tentativo di recuperare un senso in qualcosa di più vicino all’individuo e al suo ambito riservato senza presupposti o fondamenti esterni, no? Per questo citi spesso Bukowski. Ho letto in un’intervista che stai leggendo Wallace, che mi dici?
Sto leggendo David Foster Wallace ed è un’avventura. Ho letto Una cosa divertente che non farò mai più e sto leggendo Brevi interviste con uomini schifosi, un libro assurdo che dimostra tutta la sua sensibilità. A me piace lui e mi piace Bukowski (non centra con questa lista ma ho amato e amo Pennac) perché sono persone che non hanno avuto paura di mostrare quanto facevano schifo, non avevano paura di mostrarsi come brutte persone.
E come coniughi questa cosa con il rap?
Il rap per come sta diventando è artefatto, ma in senso buono. È una costruzione e una narrazione romanzata di quel che succede. Solo che sia il rap che altra musica che sento girare mi sembra che non parli al cuore di quel che succede di brutto alla gente. Non possiamo parlare solo d’amore se viviamo con contratti precari e non sappiamo cosa succederà domani delle nostre vite.
La cosa bella della musica è proprio questa, che basta andare a tempo e puoi dire certe cose. Io, e credo la gente se ne sia accorta, voglio portare la realtà di tutti noi ripulita da una finzione che ci inchioda senza farci evolvere. Che ci estingue.
La gente, in effetti, vedendo quanti sold-out hai fatto, ha risposto bene direi: te l’aspettavi?
Per niente, soprattutto in posti difficili come la Sicilia. È strano ancora, per me, ma è la conseguenza di qualcosa, di quello che dicevo prima… la gente sembra essersi accorta che l’offerta nella musica italiana è un po’ tutta uguale e che nessuno parla più di tematiche sociali o di problemi veri come il lavoro. E la mia filosofia si può riassumere in: “concentrarsi sui problemi veri è meglio che fare il nichilista e piangersi addosso sostanzialmente perché sono un pigro di merda.”
Però al rap storico italiano hai fatto un sacco di riferimenti e citazioni, nel corso dei tuoi album…
Sì io faccio rap perché sono esistiti Neffa, i Colle, Kaos e i Sangue Misto e poi Fibra e gli altri: io rispetto per il Danno, Kaos, Fibra o Gue Pequeno l’avrò sempre perché sono stati loro ad insegnarmi come si rappa.
Parliamo quindi un po’ anche dell’album, lo trovo molto sofisticato, sembra proprio che avessi bisogno di dire qualcosa alla gente, in un flusso che unisce trasversalmente tutte le canzoni toccando vari temi. Per il tipo di musica e per lo stile che usi mi sembra, esagero, di ascoltare una canzone sola, dico male?
Di certo quest’album è meno inaspettato di quello precedente, e pur essendoci dei pezzi che hanno carica ed arrangiamenti favolosi direi che non c’è il singolone come nel vecchio. Ma io credo che la gente piano piano lo capirà fino in fondo, è un disco con vari livelli di ascolto… Anche Dargen fa album che sembrano un solo discorso dall’inizio alla fine no? Però se quando canto penso sempre di fare un discorso a qualcuno è merito di una sola persona: Primo Brown, lui faceva così e risultava pazzesco.
Se un discorso poi arriva vuol dire che tutto quanto ha funzionato benissimo.
Io lo sto ascoltando lentamente, perché non posso ascoltarlo come sottofondo. Prendilo come un complimento.
Molto!
Ma tu ti sei trasferito a Milano?
Io no, non-esiste-al-mondo.
E come mai? Quanto conta per te la città di Torino? Io prima, musicalmente parlando, associavo Torino agli One Mic e forse andando ancor più indietro, agli ATPC. Ma nessuno mi ha trasmesso la città come te.
Sì, gli One Mic sono fuori io invece sono di Torino Torino, a volte anzi penso di essere l’unico torinese rimasto in città e lo sono da generazioni. Sono cresciuto col mito della città, i miei nonni mi raccontavano di una città cambiata con i bombardamenti, con la guerra, con l’immigrazione di massa dal sud Italia… sentire questi racconti mi ha trasmesso un amore incondizionato verso la mia città e quel che rappresenta. Io stesso, sono fatto interamente delle peculiarità di Torino.
Io le poche volte che sono stato a Torino ho avuto la sensazione di essere in Italia più che in qualsiasi altra città, ho respirato lì più italianità che in qualsiasi altra parte.
Sì forse perché ci portiamo appresso un sacco di retaggio: esser stati la prima capitale eccetera. Ma la grandezza attuale di Torino, secondo me, è che è l’avanguardia italiana anche nell’integrazione. Si è creata un’integrazione con i meridionali molto più forte che in tutte le altre città, a Torino non c’è la differenza tra un terùn e uno del posto, a Milano sì. E ancor più importante, anche l’integrazione con le nuove migrazioni dall’Africa sta funzionando bene, c’è molto da fare e ne sono orgoglioso.
Quando ho chiacchierato con Frah Quintale sembrava contento di Milano, però, tu proprio no?
Eh ma perché lui è di Brescia. Possiamo star qui a raccontarci di tutte le belle possibilità che Milano offre e, per carità, è tutto vero ma l’ambiente non fa per me, c’è troppa apparenza in giro. E poi, per me e per i torinesi, c’è una sola cosa bellissima a Milano: il treno per tornare a Torino.