Foto CC Maureen Didde
Sta prendendo forma proprio in questi giorni il “New Deal for migration” o – come ama definirlo il Premier – il “Migration compact”, brutta copia del compromesso turco-europeo che prevede accordi con sette Paesi-pilota africani: Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal come Paesi d’origine, Niger e Sudan come Paesi di transito, e infine l’Etiopia come Paese di transito e origine.
L’obiettivo è, ancora una volta, quello di ridurre il numero di profughi che tentano di entrare in Europa, ma in questo caso passando l’altro limes europeo, quello meridionale, che unisce l’Africa subsahariana e settentrionale alle coste italiane, spagnole e greche.
Ancora una volta si parla di finanziamenti per trattenere i migranti nei campi presenti nei suddetti Paesi. Ma mentre si litiga per il patto scellerato con la Turchia, nessuno o quasi (fa eccezione, ad esempio, Barbara Spinelli) sembra dibattere dell’opportunità degli aiuti che interesseranno, fra gli altri, il Sudan.
Alla guida del Paese si trova il colonnello Omar al-Bashir, insediatosi nel 1989 in forza di un golpe militare che spodestò il presidente legittimo Ṣādiq al-Mahdī e portò al potere il Fronte Nazionale Islamico, determinando l’adozione della legge coranica su tutto il territorio, regioni cristiane e animiste comprese.
Dopo due lunghe guerre civili, che hanno sconvolto il Paese dal 1956, anno della dichiarazione d’indipendenza dal Regno Unito, le regioni meridionali hanno finalmente ottenuto l’autonomia da Khartoum attraverso un referendum tenutosi nel 2011, andando a costituire il Sudan del Sud, una nazione per etnie e per religione distinta dal Sudan. Non solo uno dei più giovani Stati al mondo, ma anche il più povero, che ancora stenta a trovare un equilibrio interno.
Entro i confini sudanesi rimangono tuttavia Stati ribelli, teatro da ormai più di dieci anni di lotte sanguinose. Oltre al Darfur, ci sono gli Stati del Nilo Azzurro e del Kordofan meridionale, a cui – al pari degli altri Stati indipendentisti – era stato promesso un referendum, sospeso già nel 2011 e mai più indetto. Il Kordofan del Sud è, non a caso, l’ultimo Paese sudanese in cui viene estratto petrolio, mentre il Nilo Azzurro è fertile e ricco di miniere d’oro.
Il conflitto interessa prevalentemente le Montagne di Nuba, una delle zone più inaccessibili al mondo. Dal 2011 tutte le ONG e le stesse Nazioni Unite hanno abbandonato la regione, dato che il Governo ha sospeso qualsiasi misura di protezione nei loro confronti. Qui il Sudan People’s Liberation Movement – North continua la sua battaglia contro la dittatura di al-Bashir, accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini contro l’umanità e genocidio. Perché la strategia perseguita dal generale per debellare il movimento e riappropriarsi definitivamente di queste regioni così preziose è semplice e spietata, immutata negli anni: la pulizia etnica.
La vita sui monti Nuba è scandita dall’assecondarsi delle stagioni e dai bombardamenti. Nel corso della stagione secca, da ormai quattro anni, il governo di Khartoum invia contingenti aerei che regolarmente colpiscono edifici pubblici, abitazioni e civili inermi.
Gli Antonov utilizzati dall’esercito sono semplici aerei cargo malamente camuffati da bombardieri: non dispongono di meccanismi di mira e devono mantenersi costantemente in alta quota per non essere abbattuti dalla contraerea ribelle. Aprono i portelloni e scaricano in modo del tutto casuale il loro arsenale. Nell’ultimo bombardamento, alla fine di maggio, è stata rasa al suolo una scuola.
Sono 4082 gli ordigni gettati sulla popolazione dal 2012 a oggi, ma negli ultimi mesi l’intensità degli attacchi è andata crescendo.
Solo tra gennaio e aprile ne sarebbero stati lanciati quasi 300. Con l’arrivo delle piogge, almeno fino all’anno scorso, i bombardamenti se non altro cessavano. Quest’anno proseguono oltre, senza tregua.
Accusati di spalleggiare la resistenza, i Nuba cercano di difendersi come possono: scavano buche nel terreno, si rifugiano nelle grotte, vivono negli anfratti delle montagne. Cantano mentre coltivano quello che rimane dei campi devastati dalle bombe, e con quelle inesplose ricavano utensili e strumenti d’uso quotidiano. Non c’è più cibo, non c’è più acqua, non ci sono più infrastrutture, non c’è attimo di respiro. In molti cercano di scappare, verso Sud o verso il Ciad, e poi a Nord, verso l’Egitto, e infine il Mediterraneo, Lampedusa, l’Europa. Dall’inizio del conflitto gli sfollati sono più di 400.000.
Proprio ad aprile, mentre sui rilievi del Kordofan del Sud imperversava l’esercito sudanese, il Rappresentante della Commissione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo internazionale Neven Mimica volava verso la capitale per promettere aiuti per 100 milioni di euro. Soldi che non andranno direttamente al regime – verranno dirottati verso agenzie e organizzazioni non governative – ma sulla cui allocazione al-Bashir avrà certamente una grossa influenza. Di certo, non verranno in aiuto del Kordofan.
A denunciarlo è un gruppo di giornalisti sudanesi, riuniti sotto il nome di Nuba Reports, attraverso un articolo pubblicato dal portale tedesco correctiv.org.
Non c’è solo la resistenza armata, sulle montagne del Sudan meridionale. I ragazzi della redazione di Nuba Reports non imbracciano fucili, ma videocamere, e immortalano il vissuto semplice e drammatico del loro popolo.
Sono gli unici a farlo – o meglio, sono gli unici a poterlo fare. Il governo di Khartoum ha infatti vietato l’accesso ai giornalisti esteri nelle regioni del conflitto. Se il Kordofan non ha seguito la medesima sorte del Darfur, se al genocidio dei Fur, degli Zaghawa e dei Masalit non si è ancora aggiunto quello dei Nuba, è anche grazie alle loro telecamere.
A guidare il gruppo è uno statunitense, Ryan Boyette, che assecondando la propria vocazione religiosa nel 2003 è partito alla volta di queste terre. Vi ha trovato l’amore e la guerra. Al suo scoppio, invece di fuggire con la moglie in Florida, ha preso con sé quindici ragazzi e ha iniziato a documentare le atrocità del regime di al-Bashir, i primi tempi con mezzi di fortuna, recuperati grazie all’associazione slovena HOPE – fotocamere a scarsissima risoluzione, vecchie telecamere, un computer satellitare – poi, grazie al crowd-founding e al supporto di altre testate giornalistiche estere, con strumentazione sempre più raffinata. I primi fondi ottenuti hanno anche consentito ai membri della redazione di ricevere dei rudimenti di tecnica di ripresa e videografica.
Al-Jazeera, che ormai da tempo vi collabora stabilmente, li ha ribattezzati “gli occhi di Nuba”.
Ora si spostano in moto da una zona all’altra, senza una sede fissa, per motivi di sicurezza, per raccontare, attacco dopo attacco, le cronache della guerra e contarne i morti.
Alcuni mesi fa – racconta il reporter – dopo aver fatto tappa in Sud Sudan per recuperare dei rifornimenti, Ryan incrocia sulla strada una famiglia: padre e madre, con un bambino in braccio, ischeletriti. I due vedono l’auto, si bloccano, appoggiano il bambino per terra. Ryan allora accosta, abbassa il finestrino, e in lingua Otoro dice: “Non posso portarvi, state andando verso Sud, io verso Nord'”. Ma si rende conto che c’è qualcosa di strano. “C’è qualcosa che non va?”. Il padre lo guarda, poi risponde: “Mio figlio è morto'”.
Erano in viaggio da giorni, diretti verso il primo campo-profughi, denutriti e disidratati, e da tre trasportavano il corpo di loro figlio esanime, morto di fame durante il tragitto.
Ryan li carica in macchina, fa inversione e punta di nuovo verso il confine. Solo in quel momento la donna, che fino ad allora era rimasta in silenzio, sconvolta, inizia a piangere.
Ed ecco che quest’immagine, descritta senza fare sconti al lettore, svela tutta l’imbarazzante arroganza europea, tutta la meschinità del ritornello che un tempo, se non altro, apparteneva solo alle destre, e che ora invece scandiscono in coro tutte le forze politiche, Matteo Renzi in testa: “Aiutiamoli a casa loro”. Perché certamente 100 milioni faranno la differenza per molti, ma non fermeranno gli Antonov di al-Bashir.
Aiutarli a casa loro, cioè a casa degli altri, nelle tende dei campi-profughi? Il cono d’ombra che avvolge questi Paesi e il loro destino, la scarsa attenzione dedicata dai media a realtà che sembrano così lontane, ma che ci toccano quotidianamente, spiega in parte le falle del programma d’intervento europeo in Africa, ma non dà diritto a giustificazione alcuna.
Il Sudan non è solo un Paese di transito per i migranti, è innanzitutto un Paese d’origine. E – ciò che può risultare agli occhi occidentali più sconvolgente, a noi e ai nostri 100 milioni – la desolante miseria degli Stati che lo compongono è solo uno, forse l’ultimo dei motivi che spingono queste persone a partire.
L’Europa che costruisce muri e che predica la cultura dell’accoglienza, l’Europa che stringe accordi con la Turchia, ma che lotta contro l’Isis e si batte per la libertà d’espressione, che si dice pronta ad accogliere i siriani, salvo poi lasciarli confinati alle porte dell’Unione, e che vede crescere i movimenti xenofobi in tutti i Paesi membri; quest’Europa delle contraddizioni soffre di emorragie di coerenza nell’azione, si muove in maniera scomposta nel tentativo di arginare gli arrivi nel Continente e lo fa stringendo patti scellerati.
Come ai tempi di Mare Nostrum, l’Unione Europea sembra optare per una calcolata cecità. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”: fintantoché la rotta balcanica verrà disciplinata e il fronte meridionale coperto, l’obiettivo del patto può dirsi raggiunto.