Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram.
Questa settimana Laura Martorelli ci racconta la sua esperienza come volontaria per Alice for children e della discarica di Dandora, in Kenya, tra le più grandi del mondo. Laura è una amica di lunga data dell’intervistatore: in questa puntata Diaframma avrà un taglio confidenziale.
***
Ciao Laura, come stai?
Direi molto bene! Ciao, Nic.
La fotografia è una forma di espressione diversa per ognuno. Per te che cos’è?
Potrei dire un sacco di cose astratte e romantiche (il ricordo, il carpe diem!), ma razionalmente ti rispondo così: la fotografia è un esercizio che mi tiene sveglio lo sguardo, non solo fisico, ma mentale e sociale. Allena all’estetica, al ragionamento frettoloso, al racconto, alla sintesi, alla selezione. Più lo fai e più ti accorgi di accorgerti, ed è una bella sensazione.
Il tema di fondo di questo tuo progetto su Dandora, La discarica che non c’è, è chiarissimo. Ma la fotografia secondo te può avere ancora una funzione di denuncia sociale?
Certo, ma è la forma di fotografia più complicata. La denuncia per me è quella cruda e senza retorica: mostra la situazione e suggerisce la riflessione senza imporre il punto di vista etico o geo-politico di chi te la sta proponendo; è la foto che ti porta a non lasciarti trasportare dall’emozionale spiccio.
Conosco le tue fotografie, anche quelle delle grigliate fatte insieme in tanti anni. Sei un’amante del paesaggio ma soprattutto del ritratto. In questo progetto mi sembra tornino questi rimandi, seppure in un linguaggio prettamente reportagistico.
Sai che mi piace la reazione delle persone che fotografo, quando guardano sé stessi nella fotografia. Vederle entusiaste o imbarazzate, ma comunque grate del mio interesse, è una cosa che fa stare bene me e loro, ed è in genere semplice da ottenere.
“Mi sentivo a disagio nel vederli a disagio: lasciavo perdere, e non chiedevo”
In Kenya, però, nonostante volessi fare un reportage “umano,” per la prima volta è stato difficilissimo fare ritratti; spesso avrei voluto, ma mi sentivo a disagio nel vederli a disagio: lasciavo perdere, e non chiedevo. Le fotografie mancate sono state tantissime.
Il progetto nasce in realtà da una tua esperienza di volontariato: raccontami di questo prima di tutto.
Sono partita da volontaria e fotografa pro bono per collaborare ai progetti educativi (tra cui uno musicale, bellissimo) di Alice for Children, una onlus italiana che lavora nelle bidonville di Korogocho e Dandora a Nairobi, sorte intorno alla discarica di Dandora.
Come hai saputo della discarica?
Una volta assicurata la meta, digitare “Korogocho” o “Dandora” su Google immagini basta a scoprirla: la prima cosa di cui ti rendi conto è la sua vastità. Subito dopo ho letto uno dei libri di Alex Zanottelli, padre comboniano ex direttore di Nigrizia, che lì, in baraccopoli, ha vissuto più di dieci anni (e che è ancora venerato come un santo dalla gente di Korogocho). Mi ha aiutato a prepararmi.
Prima di partire mi hai detto che al tuo rientro avresti voluto che pubblicassi qui su Diaframma il progetto che ancora dovevi realizzare. Sono curioso di sapere il perché.
Perché è utile far scoprire e bello trovare chi diffonde le scoperte per il puro piacere di farlo.
Sostieni the Submarine: partecipa alla nostra campagna di crowdfunding su Produzioni dal basso.
Sei soddisfatta del risultato finale?
Che domanda è, Nicolò? Mi conosci! Sai che non sono mai soddisfatta di nulla. Avrei voluto poter fare di più, e non solo fotograficamente, ma spesso per questioni di sicurezza non mi era neanche permesso portare la macchina.
Parlaci della discarica, il luogo in cui sono state scattate le fotografie.
In kiswahili la chiamano Mukuru, ed è uno dei luoghi più inquinati del mondo secondo l’UNEP. Non è un ambiente isolato che vedi e percepisci da lontano: sui rifiuti ci cammini sopra sempre, ma per penetrare al suo interno ci sono 5 accessi. Il phase 4, considerato il peggiore, è quello di cui ho percorso qualche chilometro scortata dai pickers, i “raccoglitori.” Oltre, nessuno si è sentito sicuro a portarmi: la polizia in discarica non entra.
“Da una giornata fortunata si ricavano fino a 2,50 dollari”
Aperta negli anni ’70, nel 2001 il governo l’ha dichiarata “full”: capienza massima raggiunta. Nel 2017 è un via-vai quotidiano di camion che scaricano una media giornaliera di 800 tonnellate di rifiuti domestici, agricoli e medici dalle maggiori città, che vengono raccolti , mangiati, selezionati, rivenduti a compagnie di riciclo. I cartoni del latte, la gomma, i metalli e l’elettronica sono quelli che pagano di più: da una giornata fortunata di raccolta si ricavano fino a 2,50 dollari.
Ci parli della vita quotidiana delle persone che ci vivono e lavorano?
Non tutti gli abitanti delle baraccopoli limitrofe lavorano in discarica: c’è chi ha la propria bottega o bancarella di frutta nello slum, chi lava, chi cuce, chi aggiusta scarpe. I bambini, se la famiglia se lo può permettere o è aiutata, la mattina vanno a scuola. Chi lavora o vive in discarica è discriminato da chi in bidonville non lo fa, e considerato un criminale. Per reggerne i fumi e non sentire la fame sniffano colla o si ubriacano di changa; le quantità di piombo, cadmio e mercurio che respirano sono altissime. I bambini, quando non hanno lezione, aiutano i genitori a raccogliere: attraversare la discarica nel weekend quando le scuole sono chiuse è un’esperienza cruda.
Il tuo quotidiano invece come è stato?
Intenso e affaccendato, pieno zeppo di bambini. Le mattine nelle scuole in bidonville, i pomeriggi con i ragazzi della casa famiglia dove alloggiavo, il tempo libero per fotografare e imparare a contare in kiswahili.
Oltre ad essere una fotografa, so bene che sei anche una divoratrice di libri: con le parole hai dimestichezza. Come descriveresti il paesaggio in cui hai girovagato?
Denso e ignorato. È denso quando il 60% della popolazione di una città vive nel 6% di spazio disponibile. Korogocho in swahili significa confusione: la si percorre tutta a piedi in poco tempo, ma è fitta di cose e persone. Le lamiere coprono stanze in cui si vive in media in 6 senz’acqua o elettricità e per cui si pagano affitti tra gli 8 e i 20 dollari.
Ignorato perché è uno spazio che non esiste se non per chi lo vive: lo possiede lo Stato, ma sulle mappe ufficiali non compare (ma sono partiti alcuni progetti indipendenti per mappare le bidonville). Ci sono stati piani di bonifica e smantellamento falliti, a cui la gente degli slum si oppone: se la discarica chiudesse perderebbero lavoro e una fonte di cibo sicura.
Insegni in una scuola superiore, pensi di far vedere le fotografie ai tuoi studenti?
Presentazione Power Point già pronta. Per l’insegnante in Africa si ha un rispetto quasi divino. Avere tre classi nella stessa lamiera, di trenta-quaranta studenti l’una, che pendono dalle labbra dell’insegnante è una magia che ogni professore italiano dovrebbe vivere almeno una volta nella vita.
È il tuo primo reportage. Questa prima avventura, se così possiamo definirla, pensi ti porterà a volerne affrontare altre?
Certo, dedicare una parte di ogni anno a viaggiare da fotografa pro bono sarebbe bellissimo. Il Kenya è stato un inizio.
BIO
Laura Martorelli nasce a Magenta nel 1989. Laureata in letteratura americana, collabora con Lomography come traduttrice e dopo l’università viaggia per gli Stati Uniti dando vita insieme a un collega a Pairs, un progetto fotografico in cui il paesaggio naturalistico americano è accostato in dittico a quello urbano cinese per forme e sensazioni. È insegnante, e fotografa d’eventi.
Per ricevere tutte le notizie da The Submarine, metti Mi piace su Facebook