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Pod zemljom è un progetto di Martina Scalini, Mario Blaconà, Valerio Casanova e Gabriele Camilli, realizzato grazie a FuoriRotta. Dal 25 agosto all’8 settembre, un viaggio attraverso i Balcani lungo i sentieri dimenticati delle mine antiuomo, tra i fantasmi della memoria dell’ex-Jugoslavia. Qui tutte le puntate.


25 agosto, Castenedolo (Brescia)

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Ci è sempre suonato bizzarro incominciare un viaggio nei Balcani partendo da un paesino sperduto della provincia bresciana, ma è da lì che è nata la voglia di organizzare questo viaggio, insieme alla consapevolezza che per capire a fondo un argomento bisogna metterci tempo e concentrazione. Dopo una sveglia alle sei del mattino piuttosto costrittiva, ci siamo caricati sulla nostra scassona blu, stipando all’impossibile gli zaini e le attrezzature audio e video. Il caldo oggi non ha avuto pietà, ed è con qualche goccia di sudore che ci siamo presentati a casa di Franca Faita.

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Franca ha 70 anni e vive con il marito qui a Castenedolo, in una delle villette che si incontrano nelle strade tutte uguali. Lavorava vicino a casa sua, alla Meccanotecnica, una fabbrica di manufatti in plastica (giocattoli, mobili e porta oggetti colorati) attiva dal 1962. Ma presto, nel 1980, quella stessa fabbrica si fonde con un’altra azienda, la Valsella, e diventa uno dei maggiori produttori al mondo di mine antiuomo.

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Dopo un incontro illuminante con Gino Strada, Franca diventa consapevole di quello che gli oggetti che escono da quella fabbrica sono capaci di provocare in giro per il mondo.

Qui inizia la sua lotta, con anni di denunce e attività politica, mai dissuasa né dalle minacce né dagli assegni in bianco che hanno cercato di corromperla, con l’obiettivo preciso di riconvertire la produzione della fabbrica a qualcosa che potesse, come dice lei, “far felici le persone.”

In seguito alla sua battaglia, e di tutte le operaie della Valsella, la fabbrica ha prima riconvertito la sua produzione alla fine degli anni ‘90, e poi ha definitivamente cessato le attività nel 2005.

Franca è una di quelle persone che mastica politica fin da giovanissima, una di quelle, come dice Valerio, “che in fabbrica si lotta, il sindacato, il partito nonostante tutto!”. La politica per Franca è qualcosa che si fa tutti insieme, un impegno sociale continuo che oggi l’aiuta a sostenere le lotte di chi, in altri parti d’Italia, cerca di riconvertire le proprie fabbriche produttrici di armi, esportando morte tutto il mondo, non sempre in maniera legale.

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Nel 1997 vince il premio Nobel per la pace l’Ong “Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo”, di cui Franca è una delle voci più importanti, ma lei non è andata a ritirare il premio a Stoccolma, perché l’occupazione in quel momento era in una fase critica e non poteva abbandonare gli altri operai e la fabbrica. E oggi, ancora una volta, è disposta a raccontare la propria storia, mettendosi in favore di camera per ricordare i soprusi della Valsella.

La mina di produzione italiana più conosciuta era la Valmara 69, una mina a frammentazione in grado di uccidere fino a 25 metri di distanza. Ma, oltre a quelle terrestri, la Valsella produceva vari tipi di mine: mine anticarro, mine navali, lanciamine e persino materiale bellico per le operazioni di sminamento.

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Nel 1984, con l’embargo proclamato dal governo italiano verso Iran e Iraq, molte imprese militari, tra cui la Valsella, subiscono un contraccolpo. Nasce così un sistema di triangolazione che passa per Singapore, dove l’azienda apre una filiale. Alla fabbrica arriva un ordine la cui ultima destinazione sono i paesi colpiti dall’embargo.

“È arrivata una grande commessa dall’Iran che non finiva più,” ci ha raccontato Franca. “Una volta ci arriva una telefonata: stanno rientrando tutti i tir che sono partiti per Talamona, il porto dove partivano le mine. Andiamo a vedere. Su tutti i contenitori c’era scritto “pezzi di giocattoli.” E in effetti se tu vedi questi pezzi separati sembrano giocattoli o pezzi di lavatrice. Poi mi ricordo che ci hanno fatto lavorare di sabato e di domenica per cambiare tutte le etichette”.

Franca è un fiume in piena. Ci racconta storie e ci mostra carte, volantini, accordi sindacali: tutto materiale che ha conservato in una cartellina azzurra e che ogni volta è entusiasta di mostrare. Non trascura alcun dettaglio, e nemmeno si risparmia di raccontare del suo infortunio in fabbrica nel ’69, quando perse una mano per colpa delle scarse prevenzioni attuate dalle aziende dell’epoca per gli infortuni sul lavoro (triste e lunga vicenda in Italia, ma questa è un’altra storia).

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Tra un santino di Che Guevara e le foto di gruppo della sua numerosa famiglia, Franca ci prepara un buon caffè, ci raccomanda di continuare a discutere dei fatti che ci accadono attorno ogni giorno e poi ci congeda: se ne va qualche giorno in montagna — anche per lei, ogni tanto, è necessario sedersi in poltrona e dire “va bene, oggi mi rilasso, ma solo per oggi, da domani si torna a lottare, fino alla fine”.

Spiegare la provincia è dura, quella industrializzata ancora di più. Siamo andati nei luoghi in cui prima sorgeva la fabbrica di mine, che ora ospitano altre attività, ma non si vede nulla, nemmeno uno spazio che ci parli di questa storia passata; spazzata via.


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