Entro e vedo un poster di Milk — il film di Van Sant — e un poster di Che Guevara. Mi chiedo se le due cose possano andare d’accordo, poi mi ricordo che sono in una ex sede del PCI. Quella sera parlano di Frociàl, i social network del mondo omosessuale e queer.
Dario, 28 anni, uno dei fondatori del collettivo indipendente LGBTQIA Stonewall (qui la pagina Facebook), mi racconta la genesi di quello che, da diversi anni, è diventato uno dei luoghi di ritrovo e punto di riferimento del mondo omosessuale a Venezia. Altri ragazzi mi hanno raccontato le loro esperienze. Quanto segue è l’istantanea di un’isola che, alle volte, sembra solo un miraggio troppo gradevole alla vista per non essere, almeno in parte, ingannevole.
Mentre stavo a Venezia, circondato da zanzare e puzza di pesce, nel resto del mondo il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump veniva indagato, attentati di vario genere perseguitavano l’Europa e Berlusconi (ri)fondava un presunto movimento animalista. Così, di punto in bianco, mi ritornò in mente una frase che mi disse Marco Sodano, della Stampa: “Per noi (cioè noi giornalisti seri nda) è molto più interessante quello che succede intorno a casa tua (ovunque sia casa tua) o ciò che vedi tutti i giorni”.
Non era semplicemente un modo gentile per rifiutarmi un pezzo, era una cosa tipo: “Idiota guardati attorno, è lì che sta il mondo da raccontare, non nella tua testa!”. Non mi restava che rivolgere lo sguardo altrove.
Siamo in Campo Santa Margherita, la Venezia degli spritz, della sbronza facile, e del fumo di merda sovrapprezzato.
È la prima volta che mi faccio vedere al collettivo Stonewall. Entro e vedo un poster di Milk — il film di Van Sant — e un poster di Che Guevara. Mi chiedo se le due cose possano andare d’accordo, poi mi ricordo che sono in una ex sede del PCI. Quella sera parlano di Frociàl, i social network del mondo omosessuale e queer. Un incontro a settimana, un topic diverso ogni sera. Mi incuriosisco, penso che valga la pena raccontare tutto questo: il collettivo, il concetto di inclusione. Così faccio loro delle domande e questi ritratti ne sono il risultato.
DARIO—La nascita del Collettivo è stato un esperimento: la creazione di una realtà completamente nuova a Venezia. Nonostante la storia di “tolleranza,” che da sempre caratterizza la città, appariva evidente la mancanza di un’organizzazione LGBTQIA, di tipo culturale e associativo. In seguito ad alcune discussioni sulle caratteristiche della città e sui bisogni che sarebbero potuti emergere, io ed altri amici e amiche siamo passati all’azione prefissandoci degli obiettivi comuni ed elaborando un piano di creazione e sviluppo del gruppo. A partire da marzo 2014 abbiamo cominciato a diffondere la voce mediante passaparola, social network e volantinaggio, e così il 16 aprile è stato possibile organizzare il primo ritrovo. Successivamente abbiamo coinvolto anche altre persone, soprattutto giovani studenti di entrambi i sessi. Indirettamente, abbiamo tratto giovamento dalla popolarità della marcia del Pride, svoltasi a Venezia nello stesso anno. Sin dai primi incontri, la forma più chiara per la gestione di tale organizzazione è stata quella del collettivo, in cui ognuno ha la possibilità di proporre delle idee, che vengono sottoposte a votazione. Dal 2014 ad oggi sono cambiate molte cose, ma la partecipazione attiva e democratica rimane l’elemento preponderante del collettivo.
STEFANO—Sono del ‘93 e compio 24 anni a settembre. Sono vegano, animalista ed ecologista. Riguardo al mio orientamento sessuale, solitamente per semplificare dico di essere gay; ma di fatto si può dire più correttamente che sono bisessuale. Sono ateo. Io credo, ma è un’opinione del tutto personale, che cercare di conciliare un orientamento non eterosessuale con il cristianesimo sia una forzatura.
Ho capito di essere omosessuale all’età di 15 anni, appena iniziato il secondo anno di liceo.
Mio padre ha incassato la notizia con filosofia. Mia madre invece, più che essere preoccupata per la mia natura, era preoccupata per quello che mi aspettava e, al di là di un primo periodo, in cui i miei genitori mi hanno proposto di essere seguito da uno psicologo — di cui non avevo assoluto bisogno (almeno per quanto riguardava il mio orientamento) — poi per quattro anni non se ne è più parlato. È stato un periodo terribile, in cui non potevo esprimermi per quello che ero e in cui mi sentivo completamente staccato dalla mia famiglia. Ora, dopo aver riaffrontato l’argomento, con l’aiuto dei miei fratelli e anche del tempo, mia madre e mio padre accettano completamente la mia omosessualità, e non solo: mia madre ha sfilato con me al gay pride di Venezia mentre ero travestito da donna. Le persone attraversano grandi trasformazioni.
Il collettivo Stonewall è un posto fantastico. Non ci sono gerarchie, è autogestito, ed è un posto in cui si può essere se stessi senza dover per forza andare nelle discoteche o nei locali per omosessuali. È una cornice tranquilla e rilassata, è il posto dove puoi davvero sentire di essere una persona normale anche se sei omosessuale, cosa che spesso non è scontata in altri ambienti. Io mi sento personalmente molto discriminato. Non posso parlare del mio orientamento sessuale con i miei datori di lavoro, e non direi ai miei studenti che sono omosessuale. Ho sempre un po’ di paura quando mi tengo per mano con il mio ragazzo, e soprattutto con gli adulti non sempre me la sento di esprimere il mio orientamento. C’è ancora molto regresso culturale nel paese; ma direi che questa opinione può essere espressa in molti ambiti.
ILARIA—Ciao, sono Ilaria e ho 21 anni. Mia madre è stata una delle prime persone a cui ho confidato di provare attrazione per entrambi i sessi, ed è stato uno scoglio non facile da aggirare. Lei è cattolica e sicuramente non era pronta ad affrontare una realtà così scomoda, una sessualità diversa dalle sue aspettative. Abbiamo avuto scontri anche poco gradevoli riguardo tanti aspetti della mia vita dopo questa mia rivelazione, ma mi rendo conto di quanti passi avanti abbia fatto verso la mia direzione, verso di me e quelli come me. Ha veramente tolto dei paraocchi inutili, e sono fiera di lei.
Mio padre, al contrario, si professava tranquillo e indifferente nei confronti dell’omosessualità. La tipica persona del “io non ho problemi con i gay.” Poverino, quando ho cominciato a frequentare associazioni, discoteche, eventi un po’ fuori dalla norma invece, ha cominciato a punzecchiarmi anche in modo cattivo su tematiche di attualità, o insultando apertamente la comunità LGBT+. A quel punto dovevo fare qualcosa, e gliel’ho detto… Non ha più fatto nemmeno un commento negativo a riguardo, in mia presenza.
La mia città, tollerante verso i “froci”? Assisi, pittoresca isola medievale nel caos futuristico che è il circondario (si fa per dire!) fino a due anni fa non riusciva nemmeno ad accettare l’esistenza di ragazzi e ragazze omosessuali tra le sue mura. Tutt’ora fare coming out è un po’ uno stigma, vieni squadrato dalla testa ai piedi.
Trovare un gruppo di persone animate dalla voglia di informare e informarsi su tematiche così attuali e che mi riguardano in prima persona era un bisogno. Credo sia stata una delle prime cose di cui ho chiesto notizia ai pochi conoscenti che avevo qui. Il collettivo è ritrovo, divertimento e cultura, a volte è uno sfogo, è voglia di impegnarsi per qualcosa di più grande e più serio. Sicuramente è anche fatica, organizzazione e sacrificio, che hanno fatto da collante per formare dei legami di amicizia e complicità tra tanti studenti diversi, con le loro vite e esperienze alle spalle. Sì, è un crescere insieme. E crescere è importante, no?
GIACOMO—Ho 20 anni, sono gay e al momento sono uno studente del secondo anno di Biotecnologie all’università di Padova.
Non penso di poter identificare il momento esatto nel quale ho realizzato di essere gay, è stato come nella maggior parte un percorso. Posso però raccontare di un episodio che ricordo ancora molto bene, quando ero piccolo avrò avuto sì e no 6 anni ero sul divano e con la mia famiglia stavamo guardando quello che all’epoca era ancora chiamato Saranno Famosi con Maria de Filippi, e io ricordo vividamente di parlare con mia mamma e mia sorella del fatto che secondo me uno dei ballerini era proprio bello, ovviamente all’epoca non avevo ancora il concetto di sessualità quindi per me era una cosa normale. Verso la prima superiore però le cose sono cambiate, maturando la mia attrazione verso gli uomini e la mia indifferenza verso il sesso opposto sono arrivati al punto tale da farmi capire finalmente di essere omosessuale.
Mi piace pensare a Venezia come una città abbastanza aperta, è anche vero che frequento di più l’ambiente studentesco, in cui c’è un’apertura mentale maggiore. Penso di potermi ritenere fortunato da questo punto di vista: non sono mai stato discriminato a causa della mia omosessualità.
Quando sono entrato a far parte del Collettivo (circa 3 anni fa) il numero di persone LGBT+ che conoscevo si contavano sulle dita di una mano, e quasi nessuno lo conoscevo di persona, grazie allo Stonewall ho avuto l’opportunità di conoscere e confrontarmi con moltissime persone come me. È molto importante un’associazione del genere per far prendere contatto con la comunità, per apprendere dalle esperienze degli altri e condividere le proprie.
Sebbene le unioni civili siano stati un grande passo avanti per il nostro paese ancora le famiglie arcobaleno si ritrovano a non essere tutelate dalla legge, e non abbiamo delle misure legali contro l’omo-bi-transfobia, ancora oggi non possiamo quindi definirci pari agli altri. Tutta la campagna per le unioni civili ha portato grande attenzione mediatica sul tema della comunità LGBT+ e si è visto un paese abbastanza spaccato, e su questa cosa si sono fondate campagne che promuovevano la discriminazione e il rifiuto, ma contemporaneamente abbiamo anche potuto vedere chi ci sostiene e chi ci sta accanto.
CHIARA—Sono Chiara, 21 anni, “quasi romagnola”, attualmente fuori sede a Venezia. Per quanto riguarda l’orientamento sessuale, solitamente preferisco non cedere al potere limitante delle parole. Penso che le “etichette” siano utili, se non fondamentali, soprattutto in momenti della propria vita in cui si sta cercando di conoscere se stessi e si necessita di punti di riferimento in base ai quali definire la propria identità. Personalmente però preferisco non applicarmene per non rischiare di ritrovarmi a dover superare recinti autoimposti. Detto questo, se proprio dovessi usare un termine sarebbe “bisessuale”.
Ho capito che potevo essere attratta anche da persone dello stesso sesso a 14/15 anni, quando ho iniziato a provare un certo tipo di affetto per una mia compagna di classe che riconoscevo essere diverso rispetto a quello che si prova per una semplice amica. Nonostante questo e le cotte sporadiche per le ragazze incontrate a scuola o sull’autobus, non sono davvero riuscita ad accettare questo lato della mia sfera sessuale fino alla fine delle superiori, probabilmente perché ancora condizionata dalla mentalità legata all’ambiente in cui sono cresciuta. Ho fatto coming out con mia madre come bisessuale, non come lesbica, e forse questo (triste ma vero) l’ha agevolata nell’accettare la mia sessualità, sulla quale finora non si è mai sentita di porre limiti.
Sono originaria di un paesino di campagna tra Marche e Romagna che conta poco più di mille abitanti. Inutile dire che in un contesto del genere, dove la mentalità a riguardo è ancora piuttosto chiusa, gay e lesbiche “non esistono”: raramente qualcuno vive apertamente una sessualità che non rientri nei canoni dell’eteronormatività, e chi è “sospettato” è spesso oggetto di giudizi basati sui classici stereotipi e preconcetti.
Una realtà come quella del collettivo è importante perché offre un’occasione di aggregazione, informazione e confronto a chi magari non riesce a trovarla in famiglia o nelle istituzioni. Rappresenta la possibilità di aiutare e aiutarsi a vicenda nell’accettazione e di impegnarsi in prima persona. Tutto ciò in un ambiente del tutto informale, tra pari, in cui anche lo svago trova il suo spazio.
ANDREA—Mi definisco ateo (e vagamente anticlericale). Sono originario di un paesino di campagna poco lontano da Conegliano (TV), dominato da un certo tipo di mentalità che non annovera l’omosessualità tra le cose più tollerate. Trasferendomi a Venezia per studiare ho potuto vivere la mia vita più liberamente, sentendomi libero di esprimere me stesso e potendo seguire un percorso di crescita e maturazione meno limitato dalle costrizioni che mi opprimevano nel mio paesino d’origine.
Per me è importante far parte di una realtà LGBT+ perché credo che l’unione faccia la forza, soprattutto in momenti di difficoltà per minoranze soggette a discriminazioni. Un’associazione può fornire un luogo sicuro per esprimersi, confrontarsi e trovare aiuto se si è in difficoltà. Credo sia anche un modo per inserirsi nella società, cercando di essere inclusivi e dando lo stimolo a un’apertura maggiore. Col senno di poi, se negli anni di difficoltà dovuti alla presa di coscienza della mia sessualità avessi ricevuto consigli da altri membri della comunità probabilmente il peso da sopportare sarebbe stato più leggero. Questo è uno dei motivi per cui credo sia importante fare attivismo ed essere presenti sia per chi si mette in gioco, si espone, sia per chi ha bisogno di ispirazione e sicurezza e la cerca in altri per farsi forza.
FEDERICO—Prima di entrare a far parte del collettivo, ritenevo che un’associazione del genere fosse non solo inutile, perché i diritti fondamentali degli omosessuali sono già stati ampiamente affermati, ma anche dannosa in quanto, con la sua sola esistenza, pensavo distinguesse, separasse e “ghettizzasse” la comunità LGBTQIA dalla comunità eterosessuale. Mi sbagliavo di grosso: il collettivo è un luogo che ha mantenuto il suo ruolo di protezione da una società che non ti capisce e non ti accetta, un luogo in cui mi sento comunque al sicuro, nonostante fuori si parli di apertura e diritti. Ciò significa che c’è ancora molto da fare per migliorare la nostra condizione, e il collettivo ha ancora molto da dire e molto per cui lottare. È ancora difficile camminare per strada non chiedendoti quanto odio proverebbero per te le persone che hai attorno se sapessero del tuo orientamento sessuale.
LAURA—Essendo lesbica, probabilmente sento una discriminazione molto meno forte rispetto agli uomini gay, in un qualche modo siamo “piú accettate.” Il porno avrà abituato molti uomini eterosessuali all’idea di due donne che stanno insieme, per quanto considerate alla stregua di meri oggetti sessuali in attesa del maschio alfa di turno — visione che porta peraltro molte persone a considerare il sempre maggiore numero di ragazze che si dichiarano apertamente bisessuali come una moda per attirare più maschi, piuttosto che come la realizzazione di una maggiore libertà sessuale. Ad ogni modo, credo che la discriminazione per le donne omosessuali passi molto più per via indiretta.
La prima vera rivelazione credo di averla avuta a 18/19 anni, quando ho conosciuto una ragazza che era molto più sicura di me riguardo il suo orientamento sessuale. Diciamo che mi ha aperto gli occhi. Dopo quella esperienza mi sono trasferita lontano da casa per studiare e avendo maggiore libertà ho iniziato a esplorare maggiormente la mia sessualità senza il terrore che qualcuno potesse scoprirlo. Ho iniziato a frequentare associazioni, fare attivismo, poi sono entrata nel collettivo, praticamente dalla sua fondazione, e tramite tutte queste esperienze ho scoperto davvero un paese dei balocchi che neanche mi sarei sognata potesse esistere nel mio paesino d’origine. A 22 anni ho deciso che fosse il momento di dirlo ai miei genitori e devo dire che non è andata esattamente come me l’aspettavo. Mio padre l’ha presa in allegria, tutt’ora è uno dei miei più grandi sostenitori, mentre mia madre ha fatto più fatica, probabilmente non l’ha ancora accettato del tutto e le capita di tanto in tanto qualche uscita infelice, ma ci stiamo lavorando su.
Era necessario creare una realtà di questo tipo a Venezia (il collettivo Stonewall nda), città in cui un punto di ritrovo fisso per la comunità omosessuale mancava da tantissimo tempo. È nato come luogo di aggregazione, dove poter conoscere altri omosessuali in un ambiente protetto che non fosse la discoteca, dove potersi riconoscere anche come parte di qualcosa e non come l’outsider della propria cerchia, sensazione che immagino ogni omosessuale abbia provato almeno una volta nella vita. Ovviamente diamo il giusto spazio all’attivismo e all’organizzazione di eventi volti alla promozione di maggiori diritti civili per tutte le minoranze, non solo quella omosessuale. Ma da quello che ho potuto capire in questi tre anni col collettivo, ciò di cui le persone hanno maggiormente bisogno è un luogo dove potersi togliere la maschera e mostrare un lato di sé che magari fuori da quelle quattro mura sono costretti a nascondere, chi più chi meno. Sono più che felice di poter contribuire a una realtà simile, perché so cosa vuol dire doversi nascondere.
Credo che tutto questo sia ciò di cui parlava Sodano, e credo che fosse giusto raccontarlo.
Si è sempre in bilico, sul confine, tra un concetto e un altro, tra uno spazio e un vuoto: mainstream/indie, realtà/sogno, gay/etero, inclusione/esclusione. A volte non siamo noi a scegliere da che parte stare, altre volte sì. Essere omosessuali in Italia, anche nel 2017, per alcuni è problematico e la colpa, forse, è di un sistema culturale non ancora pronto per il presente. Il sindaco della città, Brugnaro, si è più volte esposto in maniera negativa circa il mondo gay e i loro diritti, dal proibire il transito in laguna di quattro crociere gay provenienti dalla California al bando per i libri “gender.” Ho provato a fargli qualche domanda in proposito ma non ha voluto rispondere. Venezia, intanto, sprofonda nell’estivo chiacchiericcio dei turisti.
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