La Francia nel mondo e il mondo nella Francia
“C’è un patto venti volte secolare tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo.” Questa frase — che in qualche modo racchiude tutto l’orgoglio, a volte superbo, dei nostri cugini d’Oltralpe — è incisa sotto la statua del suo ideatore, il Generale Charles de Gaulle, che si staglia davanti al Grand Palais a qualche metro dall’inizio degli Champs Elysées parigini — oggi purtroppo al centro della cronaca.
L’epoca storica in cui viviamo — che si apre con le immagini dei banchieri che escono dalla Lehman Brothers con i loro pacchi in mano e continua con l’entrata alla Casa Bianca di un miliardario biondo patinato — ha regalato a storici, economisti, giornalisti e tuttologi i più svariati appellativi: “L’età del Caos,” “La fine dell’ordine liberale,” “La globalizzazione in ritirata,” e via dicendo. Comunque la si voglia guardare, è difficile essere ottimisti: la Francia è tutto fuorché stabile.
La Presidentielle 2017 entrerà di diritto nella Storia della Repubblica qualunque sia il risultato, per lo meno dal punto di vista mediatico. Ma i suoi effetti e le sue dinamiche si estenderanno ben al di là dei confini dell’Esagono: non possiamo ignorare che parte delle istituzioni giuridico-statali, filosofie politico-economico che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli di storia europea siano nate o abbiano uno stretto legame con la Francia.
L’illuminismo politico alla Montesquieu è alla base della cosiddetta “democrazia liberale,” spina dorsale del sistema occidentale — almeno finora. È difficile comprendere il marxismo senza conoscere Rousseau, la sinistra giacobina e les Egalitaires come Auguste Blanqui e Babeuf; allo stesso modo, il socialismo riformista trova le sue origini nel pensiero di Louis Blanc e in parte in quello sansimoniano. E anche la cosiddetta “nuova destra populista” era stata in qualche modo anticipata nella violenta retorica anti-sistema di Sorel e nel tradizionalismo reazionario di Maurras.
C’est la lutte finale
A distanza di secoli, questo scontro si ripropone in chiave estremamente contemporanea. La Presidentielle 2017 è anzitutto un confronto tra le idee e le ideologie che meglio rappresentano la politica post crisi finanziaria. Una sorta di rissa da bar, confusa e frenetica, fra i tanti candidati e le loro idee di come tornare a far grande la Francia e, almeno per alcuni, l’Europa e il mondo. Una campagna elettorale lunga e piena di imprevisti, preceduta da due primarie, quella socialista e quella repubblicana, altrettanto emozionanti. La frammentazione politica non è certo uno dei fattori di competitività di cui vantarsi quando si vuole attrarre investitori, ma non è nemmeno il male assoluto.
Se c’è un lato positivo di questa caotica elezione presidenziale è proprio l’eterogeneità dei candidati in gioco che dimostra ancora un certo fervore intellettuale e politico.
Tanti personaggi, tante idee, un solo presidente. Nonostante il sistema elettorale francese sia studiato per rendere i risultati più o meno prevedibili, in questo caso è difficile sbilanciarsi. La corsa è aperta e questi primi mesi di sorprese e scandali hanno dimostrato che tutto può succedere. Per capire chi potrebbe vincere ma, soprattutto, cosa potrebbe succedere a seconda di chi sarà il candidato vincente, è importante conoscere chi partecipa, chi no, e chi ci ha provato.
[divider]Les Misérables[/divider]
Cominciamo quindi con chi non partecipa, suo malgrado. Tra questi c’è l’attuale Presidente della Repubblica François Hollande, la cui decisione di non ricandidarsi è stata salutata, destino beffardo, come una delle migliori prese in un quinquennio complesso e per certi versi disastroso. Primo Presidente della V Repubblica a non ricandidarsi, spesso accusato di non avere carisma e physique du role, Hollande ha fatto la figura dello studente impreparato che accetta il quattro pur non subire un’interrogazione con ogni probabilità fallimentare.
C’è da dire che dover fronteggiare la peggiore crisi economico finanziaria degli ultimi decenni, la più grave minaccia terroristica dalla Guerra d’Algeria e una crisi migratoria senza precedenti non deve essere stato facile. Il crollo disordinato di Hollande mostra con assoluta evidenza, ancora più della penosa performance dei labouristi olandesi e della disgregazione del PASOK greco, la crisi del socialismo centro-riformista europeo, banalmente detta crisi del centro-sinistra. Con buona pace dei liberali e dei popolari, l’Europa deve molto ai socialisti europeisti come Craxi, Mitterand, Willy Brandt, Felipe Gonzalez e Mario Soares che, sebbene con qualche limite, sono riusciti a “democratizzare” e “socializzare” quel freddo castello di regolamenti e direttive che era la Comunità Europea.
Questa componente di sinistra è completamente mancata nella gestione della crisi economica da parte dei governi di stampo socialista sparsi per l’Europa che si sono rifatti piuttosto ai vari Blair e Schröder.
Il risultato è un socialismo europeista che diventa solo europeista e che pur di difendere l’Europa rinuncia a tutti i suoi prerequisiti politici diventando spesso, come non mancano di notare gli euro-scettici, un tutt’uno con il centro-destra.
In un memorabile dibattito al Parlamento Europeo, Marine Le Pen ha chiamato il suo Presidente della Repubblica “vice cancelliere e amministratore della provincia Francia” sottolineando, in modo brutale, la passività amorfa del governo socialista di fronte alle politiche d’austerità dettate da Berlino. Si può dissentire sui modi, un po’ meno sui contenuti. Il tasso di gradimento di Hollande ha raramente superato il 20%, anche quando, nei mesi tragici degli attentati, ha assunto il ruolo, attribuitogli dalla Costituzione, di chef de l’armé, leader di un paese in guerra. La sua non-candidatura ha aperto le strade al fallimentare tentativo di Manuel Valls di imporsi come suo naturale successore. L’ex Primo Ministro — prima Ministro degli Interni noto per il suo contrasto con la comunità Rom — rappresenta la continuità diretta con il quinquennio di Hollande, e questo è bastato per rendere la sua sconfitta alle primarie socialiste piuttosto prevedibile. Manuel Valls voleva dimostrare che sinistra e real politik possono convergere.
Ha cercato di dimostrarlo usando il famoso articolo 49.3, meccanismo di fiducia al Governo, per far passare la loi travail, una sorta di job act francese. Questa prova di forza è stata la sua condanna. La sua sconfitta a favore del semi-sconosciuto Hamon è la controprova, non richiesta, del fallimento del centro-sinistra che cerca i voti a destra.
Le primarie dei Républicains, il partito mainstream della destra francese, allo stesso modo di quelle socialiste, hanno fatto vittime illustri, a cominciare dall’ex Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. La sconfitta di Sarkò, prevedibile al di là dei recenti scandali giudiziari, non è tanto la sconfitta di un pensiero politico come nel caso Hollande-Valls, ma di una personalità che ha esaurito il suo appeal. A dire la verità, i programmi dei maggiori candidati alle primarie della destra non erano poi così sostanzialmente differenti. Sarkozy non è stato “fatto fuori” dal ripudio di un’ideologia ma dal suo stesso ego.
Un altro leitmotiv dell’attuale dibattito è l’approssimativo ma cruciale scontro fra il “vecchio” e il “nuovo.” Sarkozy rappresenta il vecchio, gli elettori francesi pensano che abbia già avuto la sua occasione e, a giudicare dai risultati elettorali, non l’ha sfruttata in modo ottimale. La débacle sarkozista è simile a quella di un altro candidato che fino all’anno scorso era visto come il favorito per la vittoria alle presidenziali, Alain Juppé. Il sindaco di Bordeaux è un politico navigato, esperto, istituzionale, e, per certi versi, affidabile. Queste caratteristiche, che in un periodo “normale” in cui l’economia cresce a ritmi decenti e la disoccupazione rimane modesta sono considerate qualità, diventano irrimediabili difetti in un’epoca di stagnazione e disordine come quella attuale.
[divider]Bellum omnium contra omnes[/divider]
Il candidato che, comunque vada a finire, è riuscito a plasmare e influenzare la campagna elettorale dei suoi avversari, diventando una sorta di benchmark dal quale differenziarsi, uno spauracchio sul quale motivare voti più o meno utili e alleanze più o meno coerenti, è certamente Marine Le Pen che, pur essendo considerata da alcuni (miopi) opinionisti un’outsider, è senza dubbio la figura politica francese più nota al pubblico internazionale.
Approssimativamente inserito nella grande corrente delle “Nuove Destre,” il Front National, è in realtà molto diverso dagli altri partiti appartenenti a questo gruppo. Innanzitutto perché il Front National è tutto fuorché nuovo. Fondato nel 1972 dal padre naturale e politico di Marine, Jean Marie Le Pen, su modello del MSI italiano, ha ottenuto i primi seggi all’Assemblée Nationale nel 1986. Da lì in poi, sempre con risultati scarsi o modesti, complice anche il sistema elettorale maggioritario, il FN si è sempre presentato alle elezioni presidenziali e legislative come partito dichiaratamente di extreme droite.
Prima di questa recente ondata di consensi, il miglior risultato del Front National fu raggiungere il ballottaggio per le presidenziali nel 2002, quando però il suo candidato Jean Marie Le Pen perse contro Chirac con il margine di scarto più ampio di tutta la Storia della Francia repubblicana. Per quanto la qualificazione al secondo turno fosse annunciata dai lepenisti come un successo, la conseguente sonora sconfitta mostrò con tutta evidenza la grande debolezza del FN: non era in grado di ottenere i voti della classe media, incapace di allargare la sua base al di fuori degli ambienti reazionari. La modesta performance nelle elezioni del 2007 e il crollo nelle seguenti legislative l’ha confermato.
Con scaltrezza, l’erede al trono del FN ha saputo creare un partito basato su un’ideologia chiara, forte e, in questo momento, attraente. Fra i partiti di destra europei, il FN è quello ideologicamente più solido e decisamente più “a destra”. È la destra sociale, quella convergenza di nazionalismo identitario e socialismo autarchico che in origine fu del fascismo sansepolcrista. Sul lato della politica economica, Marine Le Pen rivendica misure che appartengono o potrebbero appartenere alla sinistra post-comunista, come l’uscita o per lo meno rinegoziazione dei trattati europei, a partire di quello di Maastricht sulla moneta unica.
Allo stesso modo, mettendo al centro “l’interesse nazionale,” Le Pen propone misure che richiamano il collettivismo e la pianificazione economica: nazionalizzazione delle industrie strategiche, aumento dei dazi sulle importazioni. Se a queste si aggiungono una totale diffidenza verso il mondo della finanza e del business in generale, un forte interventismo statale in economia e aumento della spesa sociale per (alcune) fasce povere della popolazione, si potrebbe persino dire che il programma economico di Marine Le Pen sia quasi di sinistra. Ma sarebbe un errore.
Non solo perché l’identitarismo razzista (che emerge in sparate come quella sugli ebrei e nele continue minacce contro gli immigrati) ha un pesante riflesso sulla politica economica escludendo da questa pseudo politica sociale le fasce più bisognose della popolazione francese (e intendo proprio cittadini francesi non immigrati).
Il lepenismo attuale è una sorta di ruralismo tradizionalista che deve molto al già citato Maurras e che propone il mito dell’eterno ritorno alla società ancestrale fondata su comunità chiuse di onesti lavoratori e bravi cattolici.
I sondaggi danno il FN in testa (o almeno quasi) da almeno un anno, ma per ora ben pochi statistici e visionari riescono a fornire probabilità concrete di una vittoria di Marine Le Pen al secondo turno. Chissà se anche il più ideologicamente solido e politicamente esperto tra i movimenti di estrema destra europei riuscirà a tradurre in modo concreto tutte le paure, motivate e non, destate sinora. Su una cosa però Marine ha già vinto: lo spauracchio di un Presidente del FN è bastato per spostare l’asse del centro-destra francese ben più verso destra. Per quanto si sia fatto eleggere con la promessa di sconfiggere Le Pen, François Fillon deve molto del suo successo alle primarie proprio alla forza di quest’ultima.
Primo ministro durante la Presidenza Sarkozy, Fillon è un politico navigato e, almeno fino qualche settimana fa, piuttosto furbo. Eletto a 27 anni per la prima volta all’Assemblée Nationale nel lontano 1981, Fillon ha occupato il seggio elettorale della sua regione natale, la Sarthe, ininterrottamente sino al 2007 mostrando una resilienza politica invidiabile. La sua ricetta contro l’avanzata lepenista si concentra nella capacità di inglobare alcuni aspetti di quest’ultima facilmente rivendibile all’elettorato tradizionale della destra repubblicana unendoli ad una politica economica che però prende le distanze dalle sue istanze poco attraenti per le élite finanziarie e economiche. Quello che ne esce è un pensiero politico che, per quanto confuso, ha un quid innovativo. Fillon è riuscito a far convergere il patriottismo e tradizionalismo cattolico (rivendicando, ad esempio, il ruolo cruciali dei Re cattolici nella storia francese e opponendosi in modo netto ai matrimoni omosessuali) al liberalismo economico di stampo thatcheriano.
Fillon infatti propone misure ambiziose, come il taglio di 500.000 dipendenti pubblici e una sostanziale riduzione della spesa pubblica. L’obiettivo è quello di parlare alle classi medie impiegatizie e libero-professioniste della Francia provinciale, mantenendo però l’appoggio utile dei grandi gruppi imprenditoriali e finanziari. Un’acrobazia politica piuttosto spericolata considerato che il thatcherismo non è mai stato un cavallo vincente in una Francia che ha una spesa pubblica ancora del 57% del PIL e che non chiude un bilancio in pareggio da metà degli anni ‘70. Purtroppo però non sapremo mai se questo esperimento politico avrà successo o meno in quanto gran parte dell’esito della candidatura di Fillon non si deve al suo programma ma alle sue vicende personali e giudiziarie, legate allo scandalo degli impieghi parlamentari fittizi per i suoi familiari.
Fillon aveva dichiarato, lanciando una frecciatina a Sarkozy, che si sarebbe ritirato nel caso fosse stato “mis en examen” (sotto inchiesta). Ciò è accaduto eppure ha preferito colpevolizzare una magistratura politicizzata piuttosto che ritirarsi.
Obiettivamente, Fillon non era mai stato l’antidoto perfetto alla Le Pen. Difficilmente gli elettori di sinistra avrebbero visto in Fillon il male minore accettabile in caso di ballottaggio e probabilmente avrebbero optato per una rischiosa ma comprensibile astensione. Figuriamoci dopo gli scandali giudiziari che hanno messo nudo la palese ipocrisia del candidato dei Républicains.
In questo gioco somma zero che è la campagna elettorale 2017, il crollo di Fillon è servito come trampolino di lancio per un altro candidato, il giovane Emmanuel Macron. Ex studente di filosofia, alumno della prestigiosa Ecole Nationale d’Administration, ex banchiere di Rothschild, ex consigliere economico di Hollande, ex Ministro dell’Economia… questa lunga lista di qualifiche è sufficiente per dare una vaga idea del poliedrico candidato indipendente.
La sua discesa in campo è stata accolta con molto scetticismo e con qualche risata paternalista. Uno sbarbatello, bravo ma inesperto, con un programma molto riformista, senza un partito consolidato alle spalle non ha alcuna speranza di successo nel gerarchico e quadrato sistema politico francese. La sua candidatura inizialmente è stata vista come un mix di sfrontatezza e innocente inesperienza. Mentre l’establishment politico lo sottovalutava, la stampa l’adorava, creando quella che secondo alcuni è una vera e propria bolla mediatica.
In effetti, la figura eclettica e carismatica dell’ex ministro dell’Economia si presta bene alle più varie speculazioni giornalistiche. Giovane, bello, competente, controtendenza ma non estremista, presto è diventato l’outsider preferito nel circolo dei libertari e democratici. Ecco, definire Emmanuel Macron “outsider” è piuttosto paradossale. Il suo cursus honorum è una sorta di esempio vivente della formazione dell’élite francese. Liceo Henri IV nel 5 arrondissement, di fianco al Panthéon, laurea in Filosofia alla Paris-Nanterre, master a Sciences Po, successivamente entra all’ENA, la scuola dell’élite per l’eccellenza. Dopodiché passa dal settore pubblico (Inspection générale des finances) a quello privato (Rothschild, banca d’affari) senza troppi indugi.
L’enfant prodige viene notato dagli alti funzionari francesi e in breve tempo scala le gerarchie istituzionali sino a diventare ministro dell’Economia a 37 anni.
Macron è un social-liberale, figlio di quella sinistra business friendly che ha sostituito una poco stimolante uguaglianza sociale a una dinamica meritocrazia. Macron ha scandalizzato perbenisti e non dichiarando che “i giovani francesi dovrebbero ambire a diventare miliardari”, ha criticato la storia recente francese definendo l’occupazione dell’Algeria come un crimine contro l’umanità. Non ha mai nascosto il suo sostegno appassionato ad uno dei grandi bersagli dell’ondata “populista”, l’Unione Europea, esaltando anche la politica migratoria della Cancelliera Angela Merkel. In linea con il suo pensiero social-liberale, Macron propone misure volte a rendere più dinamica la stagnante economia francese, colpendo gli interessi dei rentiers, siano essi grandi proprietari di immobili o dipendenti pubblici con il posto fisso.
Propone la svolta ad una economia light, incentrata sulla digitalizzazione e vede nell’auto-imprenditoria startuppista una possibile soluzione alla disoccupazione giovanile. Con un programma del genere, Macron ha conquistato l’alta finanza e il mondo del business, ma anche i giovani ben istruiti dei centri urbani cosmopoliti, i millennials amanti della tecnologia, e anche una parte di francesi “comuni” stufi della vecchia politica ma comunque troppo moderati per votare Le Pen.
Macron infatti è la sua perfetta antitesi. Per quanto sia leggermente in testa a tutti i sondaggi, quest’ultimi dimostrano anche che il supporto per Macron è il più debole. Una buona parte dei suoi simpatizzanti si dicono disponibili a valutare anche altri candidati.
In realtà, il giovane Emmanuel ha già mostrato una fine tattica politica decidendo di non partecipare alle Primarie Socialiste, creando invece dal nulla il suo movimento. E a giudicare da come se la sta passando il candidato socialista Benoit Hamon, è stata una scelta decisamente azzeccata.
Le primarie del PS sono state una sfilata tragicomica e quasi superflua, viste le minime chance di vittoria di qualunque candidato socialista.
Ne è uscito vincente Hamon, che sta facendo del suo meglio nella doppia impresa di farsi notare in una campagna elettorale frenetica e di riabilitare il PS dopo il risultato disastroso, almeno dal punto di vista elettorale, di Hollande. Hamon è stato definito il Bernie Sanders francese per il suo programma radicale, decisamente più a sinistra della linea ufficiale del suo partito. Dal punto di vista ideologico, Hamon rappresenta il socialismo egalitario ed ecologista che però rifiuta la rigidità della dottrina post-marxista. Un socialismo arcobaleno, universalista ed europeista che ha come proposta centrale quella del reddito universale. Discutere della praticità, dell’efficienza e della moralità di una misura come quest’ultima richiede tempo e spazio.
Si tratta infatti di una tematica che potrebbe diventare centrale nel futuro più prossimo, visto l’alto tasso di disoccupazione che sembra diventare strutturale e la costante meccanizzazione e robotizzazione delle professioni meno qualificate. Per quanto riguarda la Presidentielle 2017, puntare tutte le proprie chance di vittoria su una misura che molti vedono irrealistica, o peggio, dannosa è sicuramente un rischio. D’altronde Hamon doveva distanziarsi il più possibile da Hollande.
Quest’acrobazia politica non ha però risollevato le speranze di un Partito Socialista oramai da tempo in drammatico declino.
Rinnegato da parte dell’apparato del suo stesso partito (tra cui l’ex premier Valls che, in barba al patto di unità delle primarie, ha deciso di appoggiare Macron), ha visto i suoi potenziali elettori dividersi tra sostenitori della svolta liberal di Macron e la sinistra radicale di Jean Luc Mélenchon. Il leader de La France Insoumise si è infatti reso protagonista di una straordinaria rimonta proprio nelle ultime settimane.
Mélenchon ha sicuramente il merito di essere riuscito a superare le eterne divisioni e paranoie della sinistra francese che in quanto a personalismi e correntismi è paragonabile a quella italiana. Accusato di populismo e di volere inseguire Marine Le Pen, Mélenchon, se non altro, è riuscito a scrollarsi da dosso l’etichetta di radical chic grazie ad un progetto concreto e radicale e ad un umorismo burbero che lo rende fortissimo nei dibattiti e odiato dai giornalisti.
Mélenchon è uno dei pochi esponenti della sinistra europea che attacca, senza se e senza ma, la struttura e la politica dell’Unione Europea e che mette tematiche sociali davanti alle battaglie per i diritti civili.
Liquidando velocemente tutte le polemiche sulla gestione dei flussi migratori e sulla tolleranza religiosa, da anni Mélenchon parla di lavoro, industria e uguaglianza sociale usando una retorica ibrida tra il leader comunista e il tribuno della plebe. Il suo programma radicale prevede, ad esempio, la convocazione di una nuova costituente per la VI Repubblica, la rinegoziazione o la rottura dei trattati europei, un ritorno dello Stato pianificatore in economia e un protezionismo ostile ai grandi trattati commerciali internazionali.
Grazie alle sue straordinarie performance nei dibattiti televisivi e ad una campagna elettorale innovativa, organizzata dal basso, molto attiva sul web e decisamente sperimentale (Mélenchon è il primo politico della storia ad usare ologrammi per potere tenere comizi in più luoghi contemporaneamente), il 65enne ex socialista ha scalato i sondaggi al punto da affermarsi come potenziale concorrente per la qualificazione al secondo turno. Tanto è bastato per rispolverare la vecchia retorica anti-comunista ai limiti del più becero maccartismo e i soliti, insostenibili, paragoni con il Venezuela chavista.
[divider]Rien va plus, les jeux ne sont pas faits[/divider]
L’ultima settimana della campagna elettorale per il primo turno delle Elezioni Presidenziali si chiude quindi con quattro papabili candidati al passaggio al secondo turno. Solo due di questi si affronteranno ancora il 14 maggio e solo uno di questi diventerà il prossimo presidente della Repubblica Francese. Stando ai sondaggi, i quattro candidati hanno uno score che rientra nel margine di errore statistico, il che banalmente significa che tutto è possibile.
In un paese che è sempre stato caratterizzato per un bi-partitismo granitico e un’alternanza al potere quasi algoritmica, l’attuale situazione è tanto nuova quanto straordinaria. In (quasi) tutte le scorse elezioni presidenziali francesi non solo era abbastanza scontato prevedere chi arrivasse al ballottaggio, ma era anche relativamente facile individuare il candidato favorito. Ora è tutto cambiato. Ed è altrettanto straordinario che per la prima volta possano salire sul podio soltanto candidati non appartenenti ai cosiddetti partiti dell’establishment (Macron, Le Pen e Mélenchon).
Tantissimi sono i fattori potranno influenzare un risultato quanto mai incerto. Primo fra tutti l’astensione. Se buona parte dei francesi delusi dalla politica non dovesse fare lo sforzo di andare a votare lo scenario cambierebbe e, secondo alcuni, potrebbe favorire i candidati estremi. Importante sarà anche il peso del cosiddetto “voto utile”, ossia la scelta di un candidato non idealmente perfetto ma con più possibilità di vittoria. Data la profonda incertezza del primo turno, sondaggisti e opinionisti politici si sono divertiti nell’esaminare i vari scenari che potrebbero palesarsi al ballottaggio, a seconda di quali siano gli sfidanti. Lo studio migliore e più esaustivo l’ha fatto l’Economist che, attraverso un’analisi statistica, presenta le chance di vittoria di ciascun candidato e i vari potenziali risultati del secondo turno.
Per quello che valgono, questi sondaggi possono tranquillizzare chi teme che Marine Le Pen diventi Madame La Présidente. L’Economist, sbilanciandosi forse un po’ troppo, le concede solo l’1% delle chances, prevedendo una sua sconfitta contro qualsiasi avversario. Macron resta dunque favorito, soprattutto se dovesse riuscire a qualificarsi al secondo turno. Fillon e Mélenchon incalzano, e una loro doppia qualificazione al ballottaggio mescolerebbe ulteriormente le carte in tavola.
Una cosa però è certa: per gli elettori francesi sarebbe piuttosto ipocrita assolversi in un’astensione disinteressata dichiarando che “tanto sono tutti uguali”.
Chiunque riuscirà a vincere questa corsa folle dovrà poi confrontarsi con il risultato delle successive elezioni legislative. I sistemi elettorali sono fisiologicamente diversi e non è improbabile che si arrivi alla co-habitation, ossia Presidenza della Repubblica e Assemblée Nationale dominate da due schieramenti avversi. Questo è già successo nella storia recente francese e non per forza è un disastro. Tuttavia, vista la distanza tra i vari partiti e candidati e l’asprezza del dibattito politico attuale rende la collaborazione difficile e insidiosa.