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Benvenuti in un nuovo episodio di Arabeschi
Dopo aver esaminato tutte e quattro le fonti che costituiscono il fondamento del diritto islamico, oggi cercheremo di definire che cosa si intenda col termine Sharī’a, الشريعة ovvero “la via maestra” e di scoprire quali siano le implicazioni che lo coinvolgono.
Il termine Sharī’a indica appunto “la legge islamica,” ovvero tutto quel corpus di norme che devono regolare la vita di un musulmano. Come abbiamo visto nei precedenti episodi, la Sharī’a trae il suo contenuto da quattro principali fonti: primo fra tutti il Corano che, come sappiamo, ha contemporaneamente uno scopo regolativo sia della vita spirituale che di quella sociale dei credenti della società islamica; come seconda fonte adotta poi la Sunna, ovvero tutto ciò che possa rimandare alla condotta del Profeta e delle persone a lui più vicine. Infine, abbiamo la fonte della ijmā’, ovvero del “consenso della comunità dei credenti” e il qiyās, ovvero il “principio di analogia o comparazione.”
Data la natura temporale dell’impero musulmano, la Sharī’a doveva necessariamente racchiudere tutte le norme utili a regolare la vita all’interno della società, inevitabilmente, fondandosi sui principi del credo islamico. Già nel X secolo si colloca il periodo della sua massima fioritura e codificazione, grazie alla nascita di 4 principali scuole canoniche, che all’interno dell’Islam sunnita sono ormai ritenute le uniche quattro scuole di interpretazione del diritto islamico valide, nonostante le ingenti differenze tra esse. Questo riconoscimento nasce da un fenomeno che ha preso il nome di “chiusura della porta dell’ijtihād” (اجتهاد) ovvero la limitazione del processo di studio personale della legge e del lavoro diretto sulle fonti, che ha avuto come conseguenza un irrigidimento dottrinale sul tema, con il quale il mondo islamico deve tutt’oggi fare i conti; infatti, a seguito di questo, fu possibile solamente la produzione di commentari relativi agli insegnamenti delle 4 scuole, che ebbero il solo risultato di relativizzare, o rendere pedanti, le posizioni canoniche, tanto da far sorgere il pericolo di allontanarsi troppo dalle fonti originarie e questo è risultato, infine, nella perdita di consapevolezza del processo che aveva portato alla formulazione della Sharī’a, facendo sì che oggi si guardi ad essa come fosse parte della rivelazione coranica, anziché come un prodotto storico derivante da essa.
L’interpretazione letterale, dunque, e l’applicazione integrale della Sharī’a, così come sono divulgati oggi da molti gruppi islamici radicali, sono solo frutto di oscurantismo e di una semplificazione del complesso artificio del diritto islamico, considerato come parola diretta di Dio, al pari della rivelazione, senza esplicitare invece che la maggior parte delle norme della Sharī’a ricevono il loro carattere imperativo dal principio della ijmā’ che, per quanto legittimo, non ha derivazione divina. La complessità delle fasi attraverso le quali la Sharī’a è stata costruita costituisce anche la chiave di interpretazione che andrebbe usata per approcciarvisi e questo implica, inevitabilmente, la riconsiderazione del processo evolutivo che prima del X secolo aveva condotto alla formulazione delle sue dottrine, per poter aggiornare i suoi principi fondanti alla crescente complessità sociale odierna.