La non-titolarità del blog è una scelta perfettamente coerente, per un movimento politico che somiglia più a un’avanguardia letteraria.
Per molti aspetti il Movimento 5 Stelle si muove a metà strada fra la concretezza politica e la finzione letteraria, confermandosi in questo la forza politica più moderna (o post-moderna) che si possa trovare in Italia. Non si tratta soltanto dell’elemento più macroscopico — la mancanza di una soluzione di continuità tra l’esistenza del M5S come partito politico o come spettacolo di Beppe Grillo non stop — ma anche della natura essenzialmente romanzesca di tutti i suoi personaggi principali, dal Virginia Raggi a Di Battista.
Oggi, Grillo ha dimostrato la propria dimestichezza con la meta-letteratura orchestrando un coup de théâtre degno di un romanzo d’appendice, rivelando al grande pubblico che: il Blog di Beppe Grillo non è il blog di Beppe Grillo.
Esatto, quel sito internet raggiungibile all’indirizzo www.beppegrillo.it, la cui testata è “Il Blog di Beppe Grillo”, in cui gran parte dei post sono firmati Beppe Grillo, e che da ormai parecchi anni è di fatto l’organo di comunicazione del primo partito d’Italia — di cui Grillo è fondatore, “portavoce,” e detentore dei diritti d’autore del simbolo (in cui per un bel po’ di tempo è stato scritto beppegrillo.it) — ecco, in realtà non è di Beppe Grillo.
La crisi di identità è stata provocata dalla querela per diffamazione intentata a Grillo dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, in riferimento a un vecchio post sul blog che riguardava l’inchiesta Tempa Rossa — che portò alle dimissioni dell’allora ministra Federica Guidi ma che si è risolta, poi, con il proscioglimento di tutti gli indagati. Nel post si legge che le dimissioni della ministra sono “un’ammissione di colpa, dimostrano il coinvolgimento del ministro Boschi e del Bomba” (Renzi), “tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro.”
Secondo Bonifazi, abbastanza per intraprendere un’azione legale — dato l’esito dell’inchiesta — ma gli avvocati di Grillo hanno prontamente respinto al mittente le accuse di diffamazione, contestando che si possa ricondurre il blog alla persona di cui, ehm, porta il nome. Il comico, infatti, “non è responsabile, quindi non è autore, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog né degli account Twitter e Facebook, non ha alcun potere di direzione né di controllo su tutto ciò che viene postato.”
O meglio — come poi Grillo stesso ha specificato sul non-suo-blog — il leader pentastellato risponde soltanto dei post firmati, e quello incriminato, guarda caso, non portava nessuna firma.
Quindi vale tutto?
A quanto pare sì — e sembra trattarsi di uno schema collaudato e appositamente disegnato per premunirsi da querele e altre noie legali del genere. Come ha spiegato l’avvocato Guido Scorza a Repubblica, un sistema di “scatole cinesi” diviso fra Grillo, la Casaleggio Associati e l’Associazione Rousseau scherma la titolarità del blog — il cui dominio risulta intestato a un tale Emanuele Bottaro, modenese, titolare di un’altra decina di domini di cui saremmo veramente curiosi di conoscere il nome.
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Non è la prima volta, in realtà, che il signor Bottaro raggiunge gli onori delle cronache: già nel 2012 era finito in tribunale per diffamazione a mezzo internet, e a difenderlo si era scomodato l’avvocato Enrico Grillo, cugino del non-titolare del blog. Coincidenze? Ma sì dai.
D’altra parte, nel contesto di un non–partito che si regge su un non–statuto, la non–titolarità dell’organo principale di comunicazione (e di indirizzo politico, spesso e volentieri) è una scelta artistica perfettamente coerente, che colloca il Movimento 5 Stelle a pieno titolo nel novero delle avanguardie letterarie.
In quest’ottica, anche la palese assurdità del sottotitolo della testata, “Il primo magazine solo online” (in cui di vero c’è soltanto la parola “online”), acquisisce una sua logica: il blog di Grillo si può interpretare come una sorta di libro finzionale, al pari del Necronomicon di Lovecraft o delle opere di fiction nella fiction che si incontrano frequentemente tra le pagine di Borges.
Il post accusato di diffamazione, invece, è ascrivibile a un’autorialità collettiva e impalpabile — impossibile da trascinare in tribunale — come un romanzo di Luther Blissett, o al contrario, a un manoscritto rinvenuto tra le carte dei gestori del blog come l’anonimo secentesco.
Tutto molto bello, se non si trattasse della prima forza politica del Paese — in questo caso, invece, la vicenda assume connotazioni vagamente inquietanti. Stupisce la normalità — o il silenzio — con cui all’interno del Movimento 5 Stelle è stata accolta una così candida ammissione di irresponsabilità: fino a che punto è accettabile che la comunicazione ufficiale di un partito che muove un terzo dei suffragi faccia capo a nessuno? A nessuno, nella migliore delle ipotesi. Ed è grave che non si abbiano conseguenze politiche al sopra della soglia del percettibile, a parte qualche tweet indignato.
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