L’ultimo presidente statunitense non criminale

Secondo HRW, il presidente statunitense “ha portato il movimento per i diritti umani nei corridoi del potere.” Tra le altre notizie: l’aggressione senza fine agli ospedali di Gaza, il report Cnel su quanto è difficile essere giovani in Italia, e i problemi di Spotify con i contenuti pornografici

L’ultimo presidente statunitense non criminale
Carter con Anwar al-Sadat a Camp David. Foto: pubblico dominio, CIA

È morto, a 100 anni, Jimmy Carter, il 39esimo presidente degli Stati Uniti. Nato in una famiglia contadina che si occupava di coltivare arachidi Carter è stato presidente per un solo mandato, dal 1977 al 1981, dovendo navigare uno degli snodi economici più complessi della storia recente, con il mercato petrolifero completamente fuori controllo, gravi tensioni nel Sud ovest asiatico, e tensioni razziste esplosive in patria. Un democratico di formazione moderata, è stato funzionalmente l’ultimo presidente rappresentante dell’evangelicalismo progressista. La presidenza di Carter è stata segnata da importanti gesti coraggiosi — su tutti, la grazia per tutte le persone accusate di renitenza alla leva per la guerra in Vietnam, firmata il secondo giorno della sua presidenza — e dal suo impegno in prima linea sulla politica estera — tra cui gli accordi di Camp David, firmati da Anwar al-Sadat e Menachem Begin al termine di 12 giorni estenuanti di trattativa. A distanza di più di 40 anni, Carter è ancora l’ultimo presidente democratico a poter vantare supporto nel sud degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, il ricordo della sua presidenza è macchiato dall’ascesa di Reagan — e solo negli ultimi anni anche in ambito democratico si è attraversato un processo di rivalutazione delle politiche e delle ambizioni di Carter. Prima di Carter, gli Stati Uniti non avevano un dipartimento dell’Istruzione federale. Per il resto del mondo, la sua eredità più importante è appunto il suo ruolo nella trattativa di pace tra Egitto e Israele, e poi nella “crisi degli ostaggi” in Iran. Molti anni dopo la fine della sua presidenza, nel 2006, firmò Palestine: Peace Not Apartheid, un saggio su come mettere fine al conflitto israelo–palestinese, in cui codificava come l’oppressione di Tel Aviv sulla popolazione dei territori occupati costituisse apartheid, non mossa da razzismo ma dalla volontà attiva di prendere il controllo dei territori contesi. (Associated Press / POLITICO / dipartimento di Giustizia statunitense / dipartimento di Stato statunitense / Intelligencer / K–12 Dive / Middle East Eye / Simon & Schuster)