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foto CC-BY-NC-SA 3.0 IT presidenza del Consiglio dei ministri

Dal lessico ai riferimenti culturali, è stato un discorso ideologicamente chiaro e animato da un sentimento di rivalsa storica

Le opposizioni hanno accusato Giorgia Meloni di aver fatto, ieri alla Camera, un discorso “troppo ideologico” e poco concreto. Conte ha parlato di “vuota retorica,” Calenda di “lista della spesa,” per Letta non è chiaro che cosa il governo intenda fare in questi cinque anni e “soprattutto nelle prossime settimane e mesi.” In realtà è proprio la carica fortemente ideologica e identitaria di quel discorso che fornisce la chiave per capire la direzione della nuova premier e la profondità della trasformazione che cercherà di imprimere al paese, a partire dalla struttura stessa dello stato.

Meloni rappresenta prima di tutto il ritorno della politica pura, dopo un decennio dominato dalla logica delle “larghe intese” e dall’illusione tecnocratica: l’idea, cioè, che esista un modo “neutro” per governare il paese, riducendo la politica a ordinaria amministrazione da lasciare nelle mani dei “competenti.” Un’illusione che, dopo la caduta di Berlusconi, è stata incarnata da Monti e ha trovato la propria conclusione nel governo Draghi, ma che non è mai stata abbandonata da tutti gli esecutivi vagamente colorati di centrosinistra che si sono susseguiti nel mezzo — e anche dai due governi Conte, costretti al compromesso tra partiti alleati per forza e con riluttanza.

Il governo Meloni è invece un “monocolore,” tolte le trascurabili divisioni interne alla coalizione di destra. E un monocolore dominato da una precisa ideologia, che ieri la premier ha esposto alla Camera dei deputati. Le accuse di scarsa concretezza tradiscono un certo smarrimento di fronte a questo prepotente ritorno della politica là dove prima c’era soltanto “amministrazione,” e svelano uno degli aspetti più preoccupanti di questa legislatura: le opposizioni, oltre ad essere frammentate, non hanno alcuna idea altrettanto chiara da contrapporre alla maggioranza.

La riscossa dei neofascisti

Anche per questo l’impressione maggiore che si ricava ascoltando i 70 minuti del discorso di Meloni è quella di una rivalsa: la rivalsa della politica, e di una certa parte politica che a lungo è stata marginalizzata e privata di legittimità nel dibattito pubblico. Poi gradualmente sdoganata, e infine accompagnata al potere. La leader di FdI, che da giovane elogiava apertamente Mussolini e ostentava una croce celtica al collo nella sua prima apparizione televisiva, ieri ha pronunciato un’abiura di facciata, dicendo di non aver mai avuto simpatia per “nessun regime del Novecento,” fascismo compreso. Ma ha poi rivendicato con orgoglio la propria eredità politica, che è quella del Movimento sociale italiano, erede dei repubblichini, con una lettura storica apertamente revisionista. Nelle parole di Meloni, l neofascismo degli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica” — quello che insieme ad alcuni settori dello stato italiano progettava il golpe e metteva le bombe nelle stazioni — diventa una “destra democratica” che “ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane,” mentre “l’antifascismo militante” uccideva “ragazzi innocenti a colpi di chiave inglese.”

Questo passaggio, forse il più significativo del discorso di ieri, completa le parole pronunciate da Ignazio La Russa nel suo insediamento come presidente del Senato: lì, da parte di un altro orgoglioso erede del neofascismo stragista, c’era la solita retorica della “pacificazione nazionale,” con l’accostamento tra Ramelli e Fausto e Iaio per accomunare gli “opposti estremismi” degli anni Settanta — una retorica che viene da lontano e ha trovato importanti interpreti anche nel campo del centrosinistra. Meloni però è andata oltre: dall’accostamento si è passati a un tentativo di ribaltamento, in sintonia con il vittimismo che da sempre è uno dei tratti principali del fascismo, poi del neofascismo e oggi del post-fascismo meloniano. I ragazzi innocenti uccisi a colpi di chiave inglese, “l’underdog” che “stravolge tutti i pronostici” e arriva al potere pur provenendo “da una storia politica che è stata spesso relegata ai margini della storia repubblicana. È il lessico di una volontà di rivalsa, se non di vendetta, da parte degli epigoni di Salò contro gli epigoni, ormai dispersi e smemorati, della Resistenza. 

Le parole di destra

Del resto, il discorso di Meloni è stato dominato da un lessico e da una retorica smaccatamente fascistoide, senza precedenti dallo scranno della presidenza del Consiglio. La scelta delle parole è studiata: la premier non dice quasi mai “paese,” dice “nazione.” Il linguaggio è bellicoso, militaresco: “Il coraggio di certo non ci difetta […] Non tradiremo, non getteremo la spugna, non indietreggeremo.” La “patria” deve essere “riconoscente alle Forze armate per aver tenuto alto il prestigio dell’Italia nei contesti più difficili.” L’Italia ha “il dovere” di stare “a testa alta” nei consessi internazionali, “senza subalternità o complessi di inferiorità.” Le “devianze, fatte di droga, alcolismo e criminalità” devono essere combattute con “attività artistiche e culturali” e con lo sport, “straordinario strumento di socialità, di formazione umana e di benessere.” E così via.

Ugualmente e sfacciatamente di destra sono i riferimenti storici e culturali — al di là delle citazioni “di maniera” come Montesquieu o papa Francesco. C’è il riferimento alle “radici classiche e giudaico-cristiane,” c’è San Benedetto, ci sono gli “eroi del Risorgimento” — tradizionalmente recuperato dal fascismo in chiave nazionalista — e c’è il filosofo conservatore Roger Scrouton, citato nel corso della replica. Ma c’è perfino Bibbiano: un riferimento inaspettato a un vecchio caso gonfiato a dismisura dalla destra complottista, certamente non casuale, ma inserito nel discorso per abbracciare in qualche modo tutti i temi forti dell’estrema destra degli ultimi due decenni. 

Guerra ai poveri e svolta autoritaria

Sul fronte economico, le novità sono poche: la destra italiana è ancorata al liberismo di stampo thatcheriano e all’idea del laissez faire, esplicitamente richiamato da Meloni quando ha detto che il motto del suo governo sarà “Non disturbare chi vuole fare.” Complemento tradizionale di questa visione pro-impresa — “la ricchezza la creano le aziende, non lo stato” — è l’indulgenza nei confronti dell’evasione fiscale: se da un lato si promette di dare battaglia agli evasori, dall’altro si promettono nuovi condoni. D’altra parte, chi è povero lo è per scelta: si leggono in questo modo i duri attacchi al reddito di cittadinanza, basati su un’idea pericolosa che vede nel lavoro innanzitutto un servizio alla nazione. Il sussidio di disoccupazione è, secondo Meloni, “una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia, oltre che per se stesso e per la sua famiglia.” 

Ma se fin qui siamo di fronte, tutto sommato, a una continuità sostanziale con le politiche economiche già iniziate dal governo Draghi — come ha sottolineato Giuseppe Conte nel suo intervento di ieri — è sul piano delle riforme istituzionali che si intravede il programma a lungo termine del governo Meloni. Presidenzialismo e “autonomia differenziata” — leggasi: “secessione dei ricchi” — sono gli assi portanti di una trasformazione che, se attuata, potrebbe cambiare radicalmente la struttura dello stato italiano. Compiendo quel piano di “snellimento” delle istituzioni democratiche iniziato con il grave dimezzamento del numero dei parlamentari e che potrebbe sfociare in una svolta autoritaria, con la minaccia — pronunciata ieri esplicitamente dalla premier — di modificare la Costituzione a colpi di maggioranza se il governo dovesse scontrarsi con “opposizioni pregiudiziali.” Non è detto, ovviamente, che questo programma riesca ad essere tutto realizzato durante il mandato di Meloni. Una cosa però sembra certa: se fallirà non sarà per merito delle opposizioni, ma per errori propri o dei propri alleati. Del resto è un programma chiaro, quasi sfacciato: sulla prima pagina di oggi del quotidiano filo-governativo Libero, Alessandro Sallusti firma un editoriale compiaciuto che si intitola, sinistramente, “Colpo di Stato.”

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