Romano-Diritti trans

in copertina, foto via Facebook / Monica J. Romano

L’approvazione del Registro per il riconoscimento del genere è un passo importante per la lotta delle persone trans di Milano, ma l’Italia è tra i Paesi più a rischio discriminazione per i diritti LGBT+

Il consiglio comunale di Milano ha approvato l’istituzione di un Registro cittadino per il riconoscimento del genere di elezione per le persone transgender. La mozione è stata presentata da Monica Romano, prima donna trans eletta alle elezioni del 2021.

La cittadinanza per la persone transgender permetterà di avere un “badge” con il proprio nome scelto e “l’identità alias” su tutti i documenti di pertinenza comunale — come l’ abbonamento dei mezzi e le tessere delle biblioteche — anche prima del cambio ufficiale all’anagrafe.

Una delle questioni più odiose per le persone transgender è la difficoltà di cambiare il nome all’anagrafe, il cosiddetto “dead name,”un passaggio condizionato da infinita burocrazia e produzione di “prove” del “cambio di genere”. Secondo la consigliera Romano l’obiettivo è l’approvazione di una legge nazionale: “La legge attualmente in vigore è ormai di 40 anni fa e del tutto inadeguata. Oggi le persone transgender devono affrontare percorsi che possono durare anche anni, frustranti quanto costose perizie psichiatriche e mediche, passaggi da avvocati e tribunali che allungano i tempi e costano migliaia di euro – prima di vedere riconosciuto un diritto che dovrebbe essere dovuto e soltanto validato dalle istituzioni.”

Il riconoscimento dell’identità di genere per le persone transgender è stato uno dei temi che ha portato alla rottura dell’ala dem sulla legge Zan. Anche alcune esponenti del movimento femminista italiano e Arcilesbica si sono schierate contro la possibilità di avere una legge organica sull’identità di genere. Si tratta del movimento antagonista delle “TERF” (Trans-exclusionary radical feminist), che ha visto un allineamento politico inedito tra lesbiche, femministe, Fratelli d’Italia e la Lega. “Il transfemminismo e perché le lesbiche farebbero meglio a rifiutarlo” è il titolo del quarto capitolo del saggio a firma, tra le altre, di Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica.

La legge Zan, bocciata lo scorso ottobre in Senato, è stata rilanciata in uno degli Stati Generali dei diritti organizzati dal Pd a Milano, dove ha partecipato in videochiamata anche il segretario del Pd, Enrico Letta. Si dovrà ricominciare l’iter di approvazione da 0,  con la prospettiva di cambiare qualcosa: lo ha detto indirettamente Letta ha parlato di come sia fondamentale “fare delle mediazioni che consentano di ricucire la ferita e di approvare la norma” entro fine legislatura. A Letta ha fatto eco pure lo stesso Zan, il quale ha precisato di essere “disponibili a discutere di mediazioni purché non ci venga chiesto di stravolgere l’impianto della legge.”

Secondo l’indagine dell’Ilga (International Lesbian and Gay Association), l’Italia è al trentacinquesimo posto tra i paesi dell’Europa per quanto riguarda i diritti LGBT+ e una persona omosessuale o bisessuale su cinque ha denunciato aggressioni sul luogo di lavoro. L’Italia è ventiseiesima su 27 Paesi per non discriminazione, trentatreesima su 49 Paesi riguardo le tutele e i progressi verso la comunità LGBT, ventesima su 24 Paesi per il riconoscimento giuridico delle famiglie arcobaleno e infine ultima per quanto riguarda i discorsi d’odio, dopo la bocciatura della legge contro l’omolesbobitransfobia, di cui si ricordano l’applauso dell’opposizione in Senato dopo il voto che vide dei voltafaccia nella coalizione Pd-M5S-Iv.

A questi già allarmanti dati, vanno sommati i dati Istat relativi a 2020 e 2021 che indicano un aumento delle aggressioni: il 4,1% tra gli uomini e il 3,3% tra le donne. Il dato più alto è tra i giovani (5,8% dei 18-34enni), tra cui molti sono ragazze e ragazzi che subiscono abusi anche in ambito familiare, come nei recenti casi di una ragazza costretta a mangiare in balcone e di un’altra nel Trevigiano perseguitata dai genitori perchè omosessuale.

L’Istat riferisce anche sulle discriminazioni sul luogo di lavoro: il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali ha affermato che l’orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa. Il 12,6% non si è presentato a un colloquio di lavoro perché ha pensato chel l’ambiente sarebbe stato ostile. Il 78% delle aziende coinvolte nell’indagine Istat ha risposto che non c’è necessità di promuovere programmi inclusivi per le persone LGBT+.

Le iniziative delle città promuovono un modello inclusivo ma provvisorio, perché non può sostituirsi alla certezza di una legge. La doppia paternità e la doppia maternità non riconosciute  sono un altro esempio di discriminazione delle persone LGBT+ e sono ancora un problema per la legge italiana. Infatti, solo la madre o il padre biologici vengono riconosciuti come legittimi genitori dei figli. Non esiste un censimento dei “bambini arcobaleno:” l’unico dato affidabile è quello Istat del 2011, le coppie di persone dello stesso sesso che hanno dichiarato di essere unite da un legame affettivo di tipo coniugale sono in totale 7513, di cui 529 con figlie e figli, ma si tratta di una stima al ribasso. Alcune città, come Padova e Milano, hanno istituito i registri delle famiglie omogenitoriali, ma in assenza di una legge che garantisca diritti certi per tutti il Comune di Torino ha dovuto sospendere le registrazioni, dopo un’ordinanza del questore.

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