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“Il discorso sulla rappresentazione LGBT ha preso il sopravvento su tutto. Non esiste più quella dimensione ‘umana,’ per cui si analizzano le questioni sociali, il lavoro, o i desideri a livello più intimo”

Le domande scelte per questa intervista sono ispirate dal libro LGBTQIA+ – Mantenere la complessità, pubblicato da Eris edizioni, di Antonia Caruso — editorialista e attivista trans/femminista. Ma non solo, si parla di questioni concettuali, storiche e interne alla “Sigla,” in cerca di una nuova strada dopo la chiusura al DDL Zan, un movimento che non riesce più a trovare la sua forza innovatrice per parlare del margine. Il risultato è un’intervista decostruita, dove a volte è Antonia Caruso a intervistare l’intervistatrice.

 Antonia Caruso e la sua gatta Gudrun

Ciao Antonia. Che rapporto hai con La Sigla LGBTQIA+?

Mi sento parte di una piccola sigla, fatta di valori specifici. Forse l’ho scritto anche nel libro: non esiste una comunità unica. Anche un poliziotto gay o gay di destra fa parte della Sigla, ma non per questo abbiamo qualcosa in comune.

Mantenere la complessità – in che modo non lo stiamo facendo?

Il sottotitolo è stato proposto dalla curatrice della collana. Per complessità intendo la necessità di affrontare le questioni della differenza, dell’alterità non dal punto di vista unicamente dei diritti. Ho iniziato a leggere un libro che critica la prospettiva culturalista secondo cui per fare antirazzismo è necessario fare pedagogia sociale, senza approfondire quanto il concetto di razza sia intrinseco alla suddivisione e alla visione della società. C’entra molto con le persone della Sigla perché tematizzando e mettendo come priorità la pedagogia non vediamo la struttura che c’è dietro.

Ho portato nella mia psicanalisi la disgiunzione tra l’io persona e l’io politico e tra queste due persone non c’è un buon rapporto, fondamentalmente si odiano. Tu ti sei mai sentita in conflitto? Nel mio caso è una questione che prende anche il modo in cui spiego la mia omosessualità.

Sono in conflitto perché non riesco a trovarmi molto nelle modalità collettive. Penso che il percorso della Sigla sia da fare collettivamente, ma il mio io personale ha difficoltà a stare nei percorsi assembleari, come quelli del Pride ad esempio. Questo è un primo conflitto. Parlare del libro e quindi di una collettività è molto difficile: da una parte ci sono dentro, devo parlare contemporaneamente per molte persone, buona parte anche a me sconosciute. Quindi devo anche “togliermi da me” però senza spersonalizzarmi. Intendevi questo?

Rispetto al contenuto del tuo libro, sì. Ma se posso aggiungere un secondo livello, ad esempio mi vedo come una donna lesbica meno politica rispetto ai miei 20 anni e più come persona “senziente.” Ho più difficoltà in una comunità a identificarmi con tutt*. Però ci sono delle cose politiche che devono essere riprese in mano. In questo periodo penso che la sigla sia in difficoltà, in crisi. Non c’è una direzione: cosa ne pensi?

C’è un riconoscimento politico (che va bene). Ma finisce un po’ là, anzi ora sta prevalendo la spinta assimilazionista nel senso che si chiede alla società di includerci ed è proprio questa cosa della divisione tra noi e loro e il fatto che chiediamo loro delle cose, delle leggi. Ho la sensazione che ora il discorso sulla rappresentazione televisiva, nelle serie tv e nei film e la questione del linguaggio abbiano preso il sopravvento su tutto. Non esiste più quella dimensione ‘umana,’ per cui si analizzano il vissuto di desideri non legati all’orientamento come le questioni sociali, il lavoro, o a livello più intimo e diciamo da una prospettiva psicoanalitica, anche se uso questa parola in modo un po’ improprio.

Che cosa vuoi dire con psicoanalitico?

Da una parte, storicamente, una parte del movimento ha portato in superficie l’osceno, la provocazione, il sesso, il godimento. Ma mi sembra che l’elaborazione sia finita lì. Se parliamo di desideri, può essere qualsiasi cosa: può andare anche contro di sé, contro la vita e può essere anche autodistruttiva.

“Bisogna ragionare e vivere intorno all’opposizione binomio norma-trasgressione.” Come si fa a farlo senza essere inglobati dalla prima o espulsi dall’altra?

Anche all’interno del movimento più antagonista, si creano delle norme anche non prescrittive. Ad esempio, come norma sociale, il consumo dell’alcol: se tu non bevi in determinate occasioni qualcosa non torna. Anche la norma del desiderio, della favolosità sono tutte cose che da rivendicazioni sono diventate norme. Come si fa a trasgredire da una norma che nasce dalla trasgressione? Sono arrivata al coming-out molto tardi, a 31 anni, non ho iniziato a 20 anni perché li ho vissuti in un altro modo. Per questo continuo ad avere uno sguardo parzialmente esterno che è un vantaggio ma anche un limite, perché c’è più distanza ma anche più sguardo critico, riesco a vedere un po’ di più le norme non dette. L’opposizione norma-trasgressione in sé non è un problema, ma bisognerebbe problematizzarla nel momento in cui tu fai della trasgressione come valore della politica.

È un meccanismo che sta usando la destra: sulla cancel culture ad esempio. Molti intellettuali di destra si sono detti controcorrente: trasgressione della norma dell’intellettuale che deve essere di sinistra.

Sfruttare la trasgressione per riportare in alto la norma: la visione dell’omosessualità si vive nella società come se fosse un’imposizione normativa, ad esempio la legge Zan, ma in realtà non è norma ma avanzamento sociale.

Se io ti dico: questa intervista è normativa perché tu fai le domande e io rispondo quindi posso ribellarmi a questa cosa qui, ma non è detto che sia davvero così, cioè il fatto di usare la contrapposizione norma-trasgressione è funzionale per non fare cambiare niente.

A un certo punto nel libro dici: “Tutto si è trasformato in merce,” con riferimento a borse, cover, panchine arcobaleno. Poi dici “ci sono certe istanze che valgono meno di altre.” A cosa ti riferisci di preciso?

Ci sono le istanze intersex, trans al di là dell’hype attuale, che valgono meno di altre. In serie A gioca il matrimonio egualitario.

Io ho l’impressione che tutto sia considerato di second’ordine a prescindere e che il matrimonio egualitario sia una conseguenza di questo. Ad esempio: l’invisibilità delle donne lesbiche. La donna lesbica non ha trovato la sua dimensione altra, è stata inabissata sotto il peso dell’essere diversa dall’uomo e dalla donna eterosessuale.

Adesso sui media le lesbiche sono Arcilesbica. Parlando con un’amica dicevo che il discorso lesbico viene ostracizzato perché è l’unico discorso dove gli uomini possono non esserci e questo discorso sui media non può esistere.

Parli anche di Stonewall e del fatto che la protesta sia iniziata da persone trans, escluse dalla società o comunque razzializzate: una forma di sottoproletariato. La situazione non sembra essere così cambiata all’interno della Sigla.

Non c’è molta attenzione a livello di politica mainstream. La Gpa è l’unico momento in cui si parla di soldi e di classe – per criticare la scelta degli uomini gay considerati benestanti. Poi c’è il discorso del sex work in senso largo: a livello politico il fatto di considerare il sex work come un lavoro deve essere prerogativa della Sigla. C’è il safari gay, il turismo gay ed è più accettato come tipo di “economia,” eppure il sex work è meno accettato.

Veniamo all’annosa questione delle TERF.

La questione non si risolverà mai, non vogliono ascoltare e quindi non c’è dialogo per me. Le TERF hanno un’età media un po’ alta, sono un residuo storico ma ci sono anche le giovani. Soprattutto su Twitter. Io ho un programmino per Chrome che si chiama Shinigami eyes, indica i profili in rosso delle TERF su tutti i social.

Tu scrivi che le lesbiche e le persone trans si somigliano. In che modo?

Hanno messo in crisi l’idea di sesso e genere, con il concetto di lesbica come non-donna e le persone trans hanno messo in crisi la fissità del genere, sdoganato il fatto che si può cambiare genere e puoi anche andare in un genere indefinito. Questo è un punto politico nella vicinanza tra la filosofia trans e la filosofia lesbo-femminista.

Queer è bello o riduce la complessità?

Entrambe. Da una parte riduce la complessità, perché la Sigla non è monolitica. Queer tende a inglobare tutto e allo stesso tempo deve mantenersi indefinito per essere minimo comune denominatore. Non nasce come questione identitaria e una categoria epistemologicamente indefinita è difficile da concepire. Se dici “io sono cosi” ma questa cosa è indefinita è difficile descriverla anche se è diventata una categoria commerciale. Visto che lesbica suona come una parolaccia, sui gay se ne dicono di ogni, bi non esiste, trans è considerato dispregiativo… invece queer ha questo esotismo anglofono che lo fa sembrare più innocuo.

in copertina, ProtectTransKids Protest, Washington, DC, 22 febbraio 2017. Foto CC BY-SA 2.0 Ted Eytan

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