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tutte le foto di Edoardo Vezzi

La vittoria di Orbán alle elezioni è schiacciante ma l’Ungheria si scopre solidale con l’arrivo dei rifugiati dall’Ucraina e il rifiuto del referendum “anti-LGBT” che non ha passato il quorum. Un reportage da Budapest tra associazioni, comunità e persone che non si arrendono allo strapotere del primo ministro

In piazza Madách Imre a Budapest centinaia di persone cantavano la versione ungherese di “People have the power” di Patti Smith. È stata la chiosa dell’ultimo comizio di Péter Márki-Zay – il volto dell’ampia coalizione che si oppone all’attuale primo ministro Viktor Orbán, esponente di Fidesz – prima delle elezioni del 3 aprile.

Il candidato dell’opposizione Péter Márki-Zay allì’ultimo comizio prima del voto di domenica 3 aprile

Nonostante si confrontasse con un’opposizione compatta, organizzata per sostenere un solo candidato, Viktor Orbán ha vinto di nuovo. Secondo Orbán ha vinto “la politica nazionalista democristiana” e “questo dovrebbe spiegare a Bruxelles che non si tratta del passato, ma del futuro.” Con lo spoglio praticamente terminato, il suo partito Fidesz ha ottenuto il 53,10% dei voti, assicurandosi una larga maggioranza nel Parlamento ungherese con 135 seggi su 199. A destra di Orbán, il Movimento per la Nostra Patria, il Mi Hazánk, ha superato la soglia di sbarramento del 5% — arrivando al 6,17%. 

Péter Márki-Zay ha ammesso la sconfitta, anche se la sua vice Katalin Lukácsi ha voluto riconoscere comunque l’importanza del risultato della coalizione, che è riuscita a competere con il Fidesz, nonostante quest’ultimo controlli gran parte dei media del paese. La sconfitta per Márki-Zay è anche personale, perché ha perso la sfida con uno dei nomi di profilo più alto del partito di governo, János Lázár, che vince in quella circoscrizione da 20 anni. 

Fidesz ha  ottenuto più del 50% dei voti, ma non è riuscito a far passare il referendum sulla legge che avrebbe proibito di parlare di tematiche di genere nelle scuole. Le schede valide si sono fermate al 44,46%, nettamente sotto il 50% del quorum.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, Orbán ha dovuto cambiare atteggiamento per essere sicuro di una vittoria solida alle elezioni. Fidato alleato di Putin si è ritrovato in una posizione scomoda e ha deciso di erigersi a uomo della pace, rinunciando all’invio di armi e ponendosi in maniera neutrale tra l’Ue – di cui l’Ungheria è parte – e la Russia. La sinistra vuole l’Ungheria in guerra, ha detto il leader di Fidesz, anche se la sinistra non vuole nessuna guerra. È pur vero che “la sinistra” – termine un po’ semplicistico per definire un’opposizione così variegata – è molto più vicina alle posizioni dell’Unione. “Domani abbiamo una possibilità storica: votiamo per l’Europa” aveva scritto Márki-Zay.

“Da quando è scoppiata la guerra,” afferma un ex diplomatico “si sono potuti osservare diversi fattori preoccupanti. Innanzitutto, si è visto che lo stato non era organizzato per un evento del genere – per anni ha chiuso centri di accoglienza e ostacolato, anche attraverso leggi, il lavoro delle Ong.” L’Ungheria di Orbán ha sempre attuato politiche anti-migranti, costruendo muri (come quello con la Serbia) e propagandando fortemente l’odio xenofobo. Come far digerire all’elettorato l’arrivo di tutte queste persone, quindi? Cambiando il termine. Non sono “migranti,” parola ormai che ha assunto un significato negativo, ma “rifugiati”. Nelle prime settimane il governo è rimasto immobile di fronte agli arrivi degli ucraini. Da poco tempo ha trasformato il centro olimpico in un rifugio di transito. “Qui  civili, giornalisti, fotografi e quant’altro non possono entrare,” spiega il diplomatico. Probabilmente è un metodo per soffocare il troppo calore delle persone, che dall’inizio si sono mostrate estremamente caritatevoli.

Proprio a causa dell’immobilismo del governo sono state le associazioni a muovere i primi passi. Tra queste Migration Aid, che ha adibito un ostello a rifugio di transito dove le persone in fuga dall’Ucraina possono riposare per qualche giorno prima di rimettersi in viaggio. Qui una volontaria racconta dell’entusiasmo inaspettato delle persone. “È tutto nuovo per gli ungheresi,” spiega “è molto inusuale che ci sia una mobilitazione così grande per i migranti. Sì, siamo amichevoli, ma non in questa maniera. Quello che sta succedendo è incredibile: dal primo giorno centinaia di persone hanno cominciato ad andare verso il confine con l’Ucraina per portare provviste in vista degli arrivi.”

Marci, il manager della struttura si destreggia tra lavoro e volontariato, gestendo centinaia di persone che hanno deciso di dare una mano. 25 volontari alla volta, quattro ore a turno. “Migration Aid,” racconta, “è una Ong nata nel 2015 in risposta al massiccio arrivo di migranti siriani e dopo lo scoppio della guerra in Ucraina siamo stati tra i primi a metterci in moto. Abbiamo volontari nelle due principali stazioni dove arrivano i rifugiati per aiutarli a venire qua”. La struttura è “solo” di transito, ma i volontari aiutano le famiglie che non sanno dove andare cercando alloggi e persone disposte ad accoglierli per più tempo possibile.

“Organizziamo tre pullman a settimana per Vienna e siamo in contatto con un’associazione austriaca che può aiutarli per trovare una sistemazione e abbiamo anche un altro posto dove le persone possono fermarsi più a lungo, anche per due settimane. È a Gyor, vicino al confine austriaco ed è più simile a un appartamento dove possono anche cucinare. Poi, entrando verso l’Austria hanno più opportunità lavorative. Il punto è che noi ci aspettiamo molti nuovi arrivi: in quel caso questo posto si dovrà trasformare, cercando di diventare un ibrido con alcune stanze come punto di transito e altre aree per ospitare le persone più a lungo e con più risorse.” Sicuramente per chi scappa dalla guerra è già qualcosa di confortante. “Ci sono stanze da due a cinque letti, alcune hanno il bagno privato, abbiamo culle e letti per bambini. È una struttura ben organizzata rispetto ad altre formatesi per esempio nelle palestre o asili dove sono ammassati centinaia di letti.”

Lo Stato per loro non ha fatto nulla, tutto quello che hanno proviene “da privati e aziende.” “Ci sono problemi”  afferma “ma noi possiamo collaborare con qualsiasi governo ci sia.”

Non sono solo i migranti il bersaglio di queste politiche di chiusura. La comunità Lgbt, qui in Ungheria, è nel mirino del governo di Fidesz, il partito del primo ministro Orban. Lo scorso anno era stata approvata una legge – definita “vergognosa” dalla stessa Presidente della Commissione europea Von der Leyen – che vietava la condivisione di qualsiasi contenuto che informasse sull’omosessualità e sul cambio di genere nei contesti pubblici, soprattutto nelle scuole, ai minori di 18 anni. Ora quella legge è sottoposta a referendum abrogativo, con domande costruite per dare ragione al governo. Perché lo stesso giorno delle elezioni? “Forse in modo da portare alle urne tante persone che altrimenti non andrebbero a votare. Le domande del referendum sono scritte in maniera ridicola. Tanto che la Corte Suprema ne ha dovuta cancellare una,” racconta un giornalista ungherese. 

Il tema ritorna davanti (ma non dentro) al Parlamento dove la sera del venerdì prima delle elezioni centinaia di persone si sono riunite per raccogliere fondi in favore degli insegnanti. Per quattro ore sul palco si sono alternati cantanti e attivisti. È una categoria bistrattata che da anni lotta per un salario decente, ma l’occasione era quella giusta per manifestare contro la legge anti-Lgbt. “Non è possibile che a scuola non possiamo parlare di omosessualità e questioni di genere” protesta un’insegnante.

Non è stata l’unica manifestazione contro Orbán prima delle elezioni che ne hanno consacrato la conferma al potere. Il giorno dopo, oltre al comizio di Márki-Zay, tantissimi si sono ritrovati per protestare contro la guerra in Ucraina e contro la posizione del primo ministro, considerata poco dura nei confronti della Russia. Decine di donne e bambini ucraini hanno marciato verso il ponte Elisabetta con in mano finti neonati che hanno poi poggiato a terra per simboleggiare tutte le giovanissime vittime dell’invasione russa. Poi un messaggio, letto con voce commossa da parte di una donna che non riusciva a trattenere le lacrime e con lei tutte le altre intorno, dove ricordava le vittime di Mariupol, i civili uccisi e i dolori di una guerra che continua ormai da più di un mese. Dal palco, le parole contro Orbán e sotto i cartelloni che lo prendono di mira per la grande amicizia con Putin.

Karoly Gyorgy, un dirigente dell’unione sindacale più grande del paese, confessa che il problema per cui l’Ungheria si ritrova in questo stato di democrazia illiberale ha anche influenze storiche. “Il processo di democratizzazione nei paesi vicini è avvenuto per mezzo di proteste e lotte dei diritti. In Polonia, per esempio, oggi se c’è da protestare lo fanno e in Ungheria il cambiamento è avvenuto seduti a un tavolo. Ora quando c’è bisogno di scendere in piazza la gente non lo fa.” Chissà se servirà veramente una lotta di piazza per combattere di nuovo per la democrazia.

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