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Dal deadnaming nell’ultima puntata di Morgana al caso dei Corpi Astinenti, nella maggior parte dei casi l’opzione migliore sarebbe chiedere scusa e ammettere di aver detto qualcosa di sbagliato

Nelle scorse puntate, abbiamo già più volte parlato di privilegio: il privilegio del maschio bianco etero cis, per esempio. Il privilegio di chi è nato — o nata — nella parte del mondo considerata, tra mille virgolette, “fortunata.” Il privilegio di chi può fare la strada a piedi in piena notte senza paura. 

Spesso la parte più difficile per chi vive nel privilegio è ammetterlo. Si fa fatica ad ammettere che su alcuni argomenti non possiamo mettere bocca — semplicemente perché non sappiamo davvero cosa significa vivere le vite degli altri. E non possiamo saperlo, perché siamo privilegiati, perché quella situazione, quello stato, non l’abbiamo mai vissuto.

Negli scorsi giorni si è parlato di privilegio in merito a due avvenimenti poco piacevoli che riguardavano la ormai celebre bolla dell’attivismo web. Da un lato, la puntata del podcast Morgana su Lana e Lilly Wachowski, dove le due registe venivano chiamate con i rispettivi deadname, e dall’altro la pubblicazione del saggio I Corpi Astinenti di Emanuelle Richard pubblicato per Edizioni Tlon e da molti accusato di afobia. 

Non vogliamo ora entrare nel merito, e questa non vuole essere una puntata di dissing o di critica ad altre realtà, però ci ha colpito come, in entrambi i casi gli autori o gli editori si siano limitati a spiegare le proprie ragioni, a giustificarsi, ancor prima di chiedere scusa alle parti offese, nello specifico alle persone transessuali e asessuali. 

Non crediamo che le autrici di Morgana siano transfobiche, né che la casa editrice di Edizioni Tlon abbia qualcosa nello specifico contro le persone asessuali. Tuttavia, anche in un ambito che potremmo in un certo senso definire di “attivismo” si fa ancora troppa fatica a dirsi che per parlare di argomenti che sono estranei alla nostra sfera di privilegio bisogna quanto meno chiedere una consulenza a chi quella realtà la vive davvero. 

E soprattutto, quando qualcuno sostiene di sentirsi discriminato, non ha alcun senso giustificarsi, perché non c’è motivazione che tenga. Bisogna chiedere scusa, ascoltare e imparare. 

Fa parte tutto dello stesso principio: non esistiamo solo noi e la nostra voce non conta di più di quella degli altri. E credere di poter parlare di tutto e tutti senza chiedere a* dirett* interessat* cosa ne pensano a riguardo è semplicemente il frutto di una società bianca, patriarcale, eteronormata e anche colonialista. 

Giustificare un comportamento discriminatorio è sempre sbagliato. Se lo facciamo continuiamo a perpetuare l’idea che alcune discriminazioni valgano più di altre, e non esiste errore peggiore.

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