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Il risultato delle primarie denota una base, almeno a livello locale, ancora abbastanza solida e vicina alla segreteria: ma le sfide davanti al partito sono enormi, e l’alleanza con il M5S è la meno complessa

Le primarie del Pd a Roma e Bologna si sono svolte senza sorprese: hanno vinto i due candidati favoriti, Roberto Gualtieri e Matteo Lepore, rispettivamente con il 59,6% e il 60,64% delle preferenze. Ma la soddisfazione nel partito è soprattutto per la “scommessa vinta” dell’affluenza. A Roma hanno votato circa 45 mila persone e a Bologna 25 mila, numeri non troppo in calo rispetto all’epoca pre-Covid — cinque anni fa a Roma avevano votato in 50 mila — e in linea con le aspettative, anche se forse è un po’ esagerato parlare di “successo di popolo,” come ha fatto il segretario Letta. Almeno, stavolta, Letta non ha dovuto giustificare un’affluenza miseranda come quella che la scorsa settimana si è registrata a Torino, dove si si sono recate alle urne solo poco più di 10 mila persone: un quinto delle primarie del 2011. Per giustificare il risultato imbarazzante, ben lontano dal “successo di popolo,” Letta ha provato a sostenere che la scarsa affluenza della scorsa settimana fosse giustificata dalla voglia di gita per le riaperture.

Non è mancata qualche polemica: a urne aperte il comitato di Giovanni Caudo, che si è piazzato dopo Gualtieri con il 15,6%, ha denunciato “leggerezze nei controlli dei documenti” o addirittura “palesi violazioni.” Su Facebook, lo stesso Caudo ha poi stemperato la tensione, dicendo di non alimentare “il clima di sospetto se non ci sono motivi evidenti.” Secondo quanto riporta Roma Today, a un seggio di Centocelle “qualcuno avrebbe dato indicazione di voto sul posto ai cittadini e ci sarebbero anche schede precompilate con nomi e cognomi.” Un battibecco simile è stato agitato dal segretario del Pd romano Andrea Casu, che su Twitter ha accusato “esponenti di Azione” di provare a condizionare l’esito delle elezioni “dando indicazioni di voto per un sindaco che non voteranno” — accuse respinte al mittente da Calenda, che dal canto suo ha condiviso polemicamente il fac-simile della scheda elettorale condivisa su Facebook dal Pd metropolitano, con il nome di Gualtieri — e solo il suo — già crocettato. 

A Bologna si rileva il fallimento del “blitz renziano”: la candidata di Italia Viva, che si è fermata al 40,4% delle preferenze, si è paragonata a “Davide contro Golia” e ha detto che ora sarà leale agli “ex avversari, ora fratelli.” Lepore ha commentato dicendo che è stata una vittoria “del noi, della politica progressiva e democratica.” Gualtieri, nel tentativo forse disperato di apparire nazionalpopolare, ha commentato dicendo che il Pd è una squadra unita, “un po’ come l’Italia di Roberto Mancini.”

“Vincono due candidati di apparato, due figure in un modo o nell’altro legate alla figura dell’ex segretario Nicola Zingaretti,” sottolinea Pietro Salvatori sull’HuffPost, rilevando però anche la differenza tra le due situazioni: Lepore sarà infatti appoggiato anche da una lista del M5S — il leader pentastellato locale Massimo Bugani ha detto che è una vittoria anche del suo movimento e “di Giuseppe Conte” — mentre a Roma Gualtieri dovrà competere in uno scenario molto più difficile e frammentato, cercando di non farsi sottrarre troppi voti dai 5 Stelle di Virginia Raggi, ma anche da Azione di Calenda, mentre i sondaggi danno in vantaggio il candidato di destra Enrico Michetti.

In generale, nonostante qualche timido progresso, il partito Democratico di Letta continua ad essere il solito Partito democratico, con i soliti problemi: un drammatico scollamento con gli interessi dei lavoratori, base storica del centrosinistra; una sconcertante ostinazioni a voler essere il partito che rappresenta gli interessi di tutti — come spesso ripetuto da Letta — senza rendersi conto che in questo modo non si fanno gli interessi di nessuno; un investimento sulla presunta competenza e superiorità morale come unica ragione da offrire ai potenziali elettori per essere votati.

Nonostante la freddezza crescente con Italia Viva e il tentativo sempre più evidente di liberarsi da con tutto ciò che è renziano — come si è visto anche a Bologna — il fatto di partecipare al governo più di destra degli ultimi anni probabilmente non aiuta i timidi tentativi di ridarsi un’identità di centrosinistra. Questa settimana il partito ha subito un ennesimo schiaffo da Draghi, che ha scelto cinque economisti fondamentalisti lib per “monitorare” le spese del Pnrr. Il vicesegretario Pd Provenzano ha avuto da ridire sulla nomina della banda dei cinque economisti fondamentalisti lib per valutare gli impatti del Pnrr, quindi ovviamente il segretario Letta si è sentito in dovere di invitarlo a smorzare i toni.

Il Partito democratico si trova così di fronte a una sfida difficilissima: a parte analisi surreali secondo le quali il problema del Pd è che non sarebbe abbastanza di centro — un elettorato a cui starebbe dando la caccia la Lega, apparentemente — per battere la destra serve altro: espandere il proprio consenso tra i milioni di elettori che hanno smesso di andare a votare o non ci sono mai andati. Per questo è necessario dimostrare una completa discontinuità sia a livello di proposte che di candidati. La mancanza di una vera strategia di espansione è un problema molto grave per un partito percepito come dedito solo alle manovre di palazzo — non ingiustamente, avendo partecipato a coalizioni di quasi tutti i colori. È un problema prima di tutto politico: per dimostrare discontinuità serve avere un programma ambizioso e difenderlo con coerenza e a spada tratta, due cose che negli anni il Pd ha dimostrato agli elettori di essere incapace di fare.

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