Che cosa resta di Black Lives Matter in Italia?
Le manifestazioni di un anno fa sono state storiche, ma oggi prevale la delusione: l’attenzione mediatica è scemata, e i neri italiani si trovano a combattere sempre le stesse discriminazioni
tutte le foto: Marta Clinco
Le manifestazioni di un anno fa sono state storiche, ma oggi prevale la delusione: l’attenzione mediatica è scemata, e i neri italiani si trovano a combattere sempre le stesse discriminazioni
Il 7 giugno dello scorso anno, io e tantissimi altri eravamo a piazza del Popolo a Roma. Da poco era stato ucciso George Floyd e mai come era capitato prima nella mia vita, avevo avuto la netta impressione che stavo prendendo parte ad un pezzo di storia di questo paese, un paese che forse per la prima volta partecipava così in massa per manifestare contro il razzismo. La forza che mi diede quella mattinata durò pochissimo, lasciando spazio ben presto ad una delusione per la totale assenza di una riflessione matura sulle discriminazioni in atto. Però per una volta eravamo tutti uniti.
“L’intervento e l’organizzazione dell’evento a Torino è stata una delle esperienze più forti da quando vivo in quella città,” mi ha confessato Espérance Hakuzwimana, autrice di Manifesto di una Donna Nera (People 2019). “In cinque anni in città non avevo mai visto così tanti afrodiscendenti in piazza Castello, e trovarmeli tutti lì con le lacrime agli occhi, la rabbia dell’ingiustizia e il desiderio di vivere quelle emozioni insieme è stato veramente potente. È stato salvifico e gratificante da una parte vedere tutta quella gente in piazza; ma è stato anche frustrante – come dissi nel mio intervento – sapere che tutti si erano mobilitati per un caso “americano” dimenticando ciò che accadeva e accade tutt’ora nelle nostre strade, nei Cpr, nei campi e nelle nostre città. C’è sempre bisogno di avere qualcuno che si immoli, che si lanci e che dimostri che una morte può avere più valore di un’altra. Se non ne parlano i media, se il nostro influencer del cuore non ci fa una storia o posta un quadratino nero, probabilmente non è così importante. Eppure la realtà questa è: ci si autoproclama antirazzisti ma solo in determinati casi, in circostanze lampanti e soprattutto se a dirlo per primo è qualcun altro.”
“È stato salvifico e gratificante da una parte vedere tutta quella gente in piazza; ma è stato anche frustrante sapere che tutti si erano mobilitati per un caso ‘americano’”
Ad un anno di distanza sembra, infatti, che nella sostanza sia cambiato ben poco per noi neri che viviamo sul territorio italiano. Spente le luci dei riflettori siamo tornati ad essere, nella migliore delle ipotesi, solamente dei corpi problematici difficili da decodificare. Così il suicidio del ventitreenne Musa Balde, che ci ricorda la realtà dei centri di detenzione, non sembra scalfire o indignare più di tanto l’opinione pubblica. Allo stesso tempo le parole crude e piene di dolore di Seid Visin, provocano la sola grande ondata di indignazione social, che, come già abbiamo visto con il caso di Willy Monteiro, sul piano concreto non riesce mai a tradursi in un’azione politica atta sia a dare dignità a tutti coloro che ancora faticano a vedersi riconosciuto il fondamentale diritto di cittadinanza sia ad affrontare in modo cosciente il tema delle discriminazioni.
In questi momenti vorrei sapere dove sono finiti i politici che si inginocchiavano in segno di protesta. Forse stanno twittando la lettera di Seid Visin per fare bella figura? Ma in fondo, perché preoccuparsi? Quest’anno, noi neri che viviamo in Italia abbiamo imparato che per combattere il razzismo basta un sorriso.
“Finché non ci sarà una presa di coscienza seria, penso sarà difficile riuscire a smantellare il razzismo”
“[Nel nostro paese] il razzismo sistemico, sociale e culturale si manifesta in molteplici forme ma penso che ancora la cosa non sia stata compresa a pieno, perché si tende ad attribuire il razzismo a ‘l’estrema destra’ (che è evidentemente razzista), senza pensare alla struttura stessa della nostra società. Finché non ci sarà una presa di coscienza seria, penso sarà difficile riuscire a smantellare il razzismo,” mi racconta Oiza Q. Obasuyi, laureata in International Relations all’Università degli Studi di Macerata e autrice di Corpi Estranei (People, 2020). “Penso alla tentata strage razzista di Luca Traini a Macerata: è evidente che qui ci troviamo di fronte al razzismo, tuttavia identificarlo solo quando si verificano episodi del genere significa non riflettere sul tipo di società in cui si vive.”
Sembra lecito chiedersi se la grande partecipazione ai raduni dello scorso anno non fosse figlia dei mesi di lockdown che avevamo alle spalle, quando eravamo ancora speranzosi che il virus fosse una questione che il nuovo anno si sarebbe portato via. Quell’euforia dovuta al senso di libertà assaporato ci ha forse fatto essere troppo ottimisti?
Il giornalista Angelo Boccato mette insieme questi due grandi eventi: “La svolta propulsiva delle manifestazioni dello scorso anno c’è stata nel fatto che le comunità afropee siano riuscite ad agganciare la solidarietà agli afroamericani con le sfide che affrontano loro stessi. In ogni caso è interessante notare la portata globale delle manifestazioni, una simile espansione a macchia d’olio delle proteste non si era mai vista prima e probabilmente la pandemia ha dato un’ulteriore motivazione all’attività dei dimostranti. D’altronde quando già ti trovi ad essere discriminato, messo in disparte, razzializzato e oltre a questo ti trovi nel bel mezzo di una pandemia, come minoranza ti ritrovi inevitabilmente ad essere più colpito – e non per i motivi genetici che qualcuno ha identificato – ma per ragioni di classe ed economiche. Perché c’è sempre l’intersezione tra razza e classe, così la misura diventa colma e il disagio deve essere espresso.”
Il disagio di cui parla Boccato non è scomparso, anzi si è acuito. Dunque sono tornata in piazza e ho partecipato alla manifestazione romana nata a sostegno di una corretta e completa applicazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, organizzata tra gli altri da Black Lives Matter Roma e sostenuta da Amnesty e Non una di meno, tenutasi il 2 giugno in piazza Bocca della Verità. La data prescelta, simbolicamente suggestiva, ha però forse dovuto scontare una concorrenza non indifferente in termini di attenzione mediatica. Sebbene fosse infatti incoraggiante il numero di ragazzi che manifestavano, con tanto genitori al seguito, rispetto allo scorso anno c’era, almeno nel contesto romano, meno calore e una piazza sicuramente più vuota.
video: Federica Bonalumi
Al di là della retorica, mi sembra evidente che la partita più interessante, in termini di dinamismo e coscienza civica, la stia giocando proprio la Gen Z, che sta gradualmente definendo una nuova weltanschauung attraverso TikTok, Clubhouse e Instagram. Come sottolinea Adil Mauro, giornalista e autore del podcast La stanza di Adil: “Sulla lotta al razzismo, nell’ultimo anno mi sembra che da un lato i più giovani siano molto più attenti al linguaggio, sono molto più reattivi e i contenuti che producono sono molto più fantasiosi. Su Instagram vedo un bel fermento, anche se sono solo un osservatore. Dall’altro lato mi sembra che in generale le cose più interessanti vengano dai femminismi. Le realtà più vivaci e combattive sono quelle che si sono fatte contaminare da quella famosa parolina intersezionalità e questo è qualcosa che motiva moltissimo soprattutto le donne. Tanti uomini, anche neri — è solo un’impressione — sembrano quasi spiazzati dal protagonismo femminile costituito soprattutto da donne che studiano e che sono molto più preparate e convinte. Se dovessi pensare all’ultimo anno le uniche voci che mi vengono in mente e che si sono levate sono voci femminili e questo è un dato. Noi uomini neri dovremmo metterci più in discussione e non avere paura nonostante la nostra presenza sia molto problematica anche per come veniamo raccontati.”
“Le realtà più vivaci e combattive sono quelle che si sono fatte contaminare da quella famosa parolina: intersezionalità”
Dal punto di vista dei mezzi di comunicazione, infatti, non sono stati fatti dei passi significativi nella narrazione delle minoranze. Se Netflix ha prodotto Zero, prima serie televisiva scritta da Antonio Dikele Di Stefano, con protagonisti neri, e la Rai ha finalmente deciso di non usare più la black face (ipotizzo che la soluzione al problema sarà semplicemente evitare di parodiare artisti neri) a fare da contraltare a questi piccoli passi non sono mancati i numerosi episodi di razzismo: dal linguaggio coloniale utilizzato per incensare i successi di Larissa Iapichino, fino all’utilizzo della parola n***o in prima serata. Di conseguenza viene spontaneo chiedersi: quanto dietro a quei segnali incoraggianti in realtà è celata solo la bieca volontà di capitalizzare su un movimento o piuttosto dei movimenti — penso ad esempio al femminismo e all’attivismo legato all’ambiente. Possiamo parlare anche in Italia di woke washing?
“Da un punto di vista personale a me è cambiato poco dopo le manifestazioni dello scorso anno,” mi racconta Nadeesha Uyangoda, giornalista e autrice del libro: L’unica persona nera nella stanza (Edizioni 66thand2nd, 2020) e co-autrice del podcast Sulla Razza. “Lavoro sempre per le stesse testate e anche il podcast Sulla Razza in realtà lo avevamo concepito già prima dell’arrivo di BLM qui in Italia. In generale però segnalo che c’è una maggiore curiosità, anche se non so quanto questa sia genuina e quanto sia dettata da una certa necessità di far vedere il proprio attivismo performativo. C’è una curiosità delle persone italiane bianche verso il fenomeno del razzismo, spesso in chiave social e secondo me questo lascia un po’ il tempo che trova. Alla fine stiamo ancora facendo dei discorsi sulla black face in televisione con persone che non ne capiscono la gravità. È tutto un condividere frasi su Instagram e Twitter senza capire poi che certe cose in televisione non si devono dire o che non è normale che quando si apre un giornale non ci sono firme appartenenti a delle minoranze.”
“C’è una maggiore curiosità, anche se non so quanto questa sia genuina e quanto sia dettata da una certa necessità di far vedere il proprio attivismo performativo”
Per Igiaba Scego, scrittrice, i risultati più interessanti sono venuti fuori dal campo artistico che ha prodotto dei risultati interessanti perché è stato capace di produrre delle riflessione sulla blackness che mai prima d’ora erano state portate avanti nel nostro paese con tanto vigore. Anche l’autrice de La Linea del Colore (Bompiani 2020) evidenzia però un dato scoraggiante: “Finalmente gli afrodiscendenti hanno avuto una presa di coscienza sul loro essere afrodiscendenti, che non è una cosa scontata. Quello che mi è dispiaciuto è che a seguito della partecipazione alle manifestazioni, non c’è stata una partecipazione trasversale. Io vedo molta frammentazione anche sulla lotta alla cittadinanza e invece ci dovrebbe essere un’alleanza per la lotta principale, una lotta che dovrebbe essere di tutti coloro che si sentono progressisti proprio come sta avvenendo con il ddl Zan. Secondo me i movimenti non sono scemati, è che non c’è una reale presa sulla società. Io non sono un’attivista ma da esterna mi sembra come se mancassero dei corpi intermedi e ogni tanto ho come l’impressione che siamo diventati ancora più invisibili.”
“Finalmente gli afrodiscendenti hanno avuto una presa di coscienza sul loro essere afrodiscendenti, che non è una cosa scontata. Quello che mi è dispiaciuto è che a seguito della partecipazione alle manifestazioni, non c’è stata una partecipazione trasversale.”
Dunque, tutto cambia perché nulla cambi? Rileggendo il pezzo che scrissi lo scorso anno a seguito delle manifestazioni italiane mi sembra di essere rimasta intrappolata nelle stesse vischiose domande, a cui però ora so dare un’amara risposta che non mi permette di gioire anche per gli infinitesimali traguardi a cui siamo giunti. E cosa dicono questi risultati della società in cui vivo? Una società che comunque fatica a riconoscere le mie istanze in quanto donna nera e italiana. Dove sono andate tutte le promesse di ascolto fatte nei mesi scorsi? Penso alle morti di questi ultimi giorni, morti che non ci dovrebbero far rimanere indifferenti ma che allo stesso tempo non riescono a svegliarci dal torpore anestetico in cui siamo noi italiani, neri e non. Ma forse il punto è un altro, e come dice Ta-Nehisi Coates: “Gli attivisti non possono persuadere i propri contemporanei — il loro obiettivo sono le prossime generazioni.” Forse questa è l’unica fantasia che possiamo permetterci di avere.