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Foto: Antonio Seprano

Dopo la sentenza di primo grado del processo “Ambiente svenduto” il destino dell’acciaieria è più incerto che mai

Il processo “Ambiente svenduto,” sul disastro ambientale prodotto dall’Ilva di Taranto, si è concluso in primo grado con una sentenza pesantissima: Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dello stabilimento, sono stati condannati a 22 e 20 anni di carcere per concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Tra i condannati ci sono diversi ex dirigenti dell’azienda, ma anche alcune figure politiche, come l’ex presidente della provincia Gianni Florido e l’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola, condannato a tre anni e mezzo (l’accusa aveva chiesto 5 anni) per aver fatto pressioni sull’Arpa per far “ammorbidire” la sua posizione sulle emissioni nocive dell’acciaieria. Vendola non ha accolto bene la condanna: “Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità,” ha detto, parlando di “mostruosità giuridica” e “giustizia profondamente malata.”

La decisione della Corte d’Assise è stata accolta con amara esultanza dai gruppi ambientalisti e dalle associazioni di cittadini tarantini che da anni si battono per far riconoscere l’inquinamento ambientale prodotto dall’Ilva. “Siamo commossi, per quelli che abbiamo perduto e per quelli che qui ancora si ammalano. È stata una strage, lunga decenni, per il profitto,” ha commentato il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. Secondo il governatore pugliese Emiliano, “la sentenza è un punto di non ritorno che deve essere la guida per le decisioni che il Governo deve prendere con urgenza sul destino degli impianti. Gli impianti a ciclo integrato, che hanno determinato la morte di innumerevoli persone tra le quali tanti bambini, devono essere chiusi per sempre e con grande urgenza.”

La Corte, infatti, ha disposto anche la confisca dell’area a caldo dell’ex Ilva, ma questa decisione non avrà alcun effetto immediato sulla produzione, perché potrà essere efficace solo dopo il giudizio definitivo della Cassazione. Sul destino dell’impianto, però, pende una sentenza del Consiglio di Stato, che dovrà confermare o respingere la sentenza del Tar di Lecce dello scorso 13 febbraio, che aveva disposto la fermata degli impianti dell’area a caldo entro 60 giorni, accogliendo un ordinanza del comune di Taranto. Una spada di Damocle che sia il governo sia i sindacati vedono con molta preoccupazione. “A quel punto sarà possibile capire in che quadro giuridico lo stato, in qualità di azionista, potrà operare,” ha commentato ieri il ministro Giorgetti.

Lo scorso aprile infatti l’attuale proprietario dello stabilimento, ArcelorMittal, ha finalizzato l’accordo con Invitalia per il rientro della partecipazione pubblica nella gestione del polo siderurgico, che dovrebbe cambiare nome e chiamarsi “Acciaierie d’Italia.” L’accordo prevede un ingresso graduale del capitale pubblico nell’azienda: Invitalia ha sottoscritto un aumento di capitale per 400 milioni, diventando socio con una partecipazione del 38% del capitale azionario e con il 50% dei diritti di voto. Entro maggio 2022 dovrà esserci un secondo investimento, fino a 680 milioni, con cui la partecipazione pubblica salirà al 60%, mentre ArcelorMittal dovrà investire fino a 70 milioni per mantenere una partecipazione pari al 40%.

L’accordo è subordinato però ad alcune condizioni tra cui “la modifica del piano ambientale in vigore per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; e l’assenza di misure restrittive – nell’ambito dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata – nei confronti di Acciaierie d’Italia Holding o di sue società controllate.” Per questo il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, aveva parlato di “uno schiaffo in faccia alla popolazione tarantina.”

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Ora lo stato si trova con la “patata bollente” di un’acciaieria altamente inquinante, che dà lavoro a migliaia di persone ma che è sempre più difficile rendere sostenibile e competitiva sul mercato, e che rischia di venire demolita pezzo per pezzo dalle sentenze giudiziarie. La possibilità di una riconversione “green” dello stabilimento, sbandierata da anni, è ancora remotissima. Non sembra crederci troppo nemmeno il ministro della Transizione Ecologica, che intervistato sul Fatto Quotidiano sostiene che l’unica possibilità per “mitigare il problema” è “passare presto ai forni elettrici, togliere il carbone, fare il prima possibile il passaggio all’idrogeno verde.” Il Pnrr prevede investimenti per decarbonizzare e impiegare l’idrogeno verde nella produzione siderurgica, ma lo stesso Cingolani riconosce che la transizione “non è una cosa rapidissima” e non è detto che “valga la pena di transire” (sic). Tra le righe, il ministro si dice favorevole tout court alla dismissione dello stabilimento: “In questi bilanci penso vengano prima le malattie, la salute e poi il Pil. Tra l’altro non penso che i numeri della produzione oggi siano come quelli d’oro del passato. Penso che oggi si debba bonificare i territori, mettere a posto e fare tutto quello che c’è da fare.”

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La sentenza di ieri arriva dopo un iter processuale lungo 9 anni: il primo sequestro dell’area a caldo risale al 2012, dopo due perizie — una ambientale e una epidemiologica — che dimostrarono gli effetti nocivi delle emissioni dell’acciaieria sulla salute dei cittadini di Taranto, e in particolare del quartiere Tamburi, che si trova a ridosso dello stabilimento. Il quadro che emerge è impietoso: secondo uno studio epidemiologico commissionato dal Ministero della Salute e pubblicato nel 2019, ad esempio, nel periodo 2002-2015 sono stati osservati 600 casi di malformazione congenita tra i neonati di Taranto — +9% rispetto alla media regionale. Nella fascia 20-29 anni si evidenzia invece un eccesso del 70% per l’incidenza dei tumori alla tiroide. Un altro studio, più recente, ha confermato l’eccesso di mortalità nei quartieri più esposti alle emissioni, con 181 morti in più rispetto alla media regionale nel 2019.

La vertenza ex Ilva è insomma un problema di salute pubblica, ecologico, economico e sociale — complessissimo, e non per caso ancora senza una soluzione. Per l’Italia rinunciare all’Ilva infatti non è semplice: il nostro paese è ancora l’undicesimo produttore di acciaio al mondo, e da sola l’Ilva di Taranto costituisce un quinto della produzione nazionale. La questione della riconversione ecologica — su cui il ministro Cingolani ieri è apparso fatalista — è insomma di primissima necessità: è inaccettabile che lo stabilimento sia al terzo passaggio di proprietà deciso proprio in luce della necessità di una riqualificazione, che viene puntualmente archiviata non appena la nuova gestione si insedia. È stato così anche quest’anno, perché lo stabilimento ha subito un forte rallentamento l’anno scorso e ora dovrebbe recuperare. Sono anni che si parla di decarbonizzazione e di adeguamento tecnologico, e i fondi per l’Ambiente del Recovery Plan — 69 miliardi di euro — sembrano l’unica possibilità per finalmente realizzare la transizione. Non è una sorpresa che la situazione si sia trascinata, aggravando ulteriormente una situazione che doveva essere affrontata anni fa: ArcelorMittal, che strappò la gara a Acciaitalia per 600 milioni di euro, è leader mondiale — seppur di margine — nella produzione dell’acciaio, sì, ma ha una lunga tradizione di chiudere gli stabilimenti che ha acquisito, ed è difficile pensare che questo non fosse il destino prefisso anche per l’ex Ilva, anche se nessuna delle chiusure gestite dall’azienda era delle dimensioni dello stabilimento di Taranto. Lo scorso settembre ArcelorMittal aveva finalmente iniziato a fare qualcosa sul fronte, e aveva assegnato ad Eni Rewind, la società “ambientale” di Eni, l’assistenza alla progettazione per la bonifica dell’area ex Ilva. Del progetto, nove mesi e un cambio di amministrazione che dovrebbe aver portato lo stabilimento solo più vicino ad Eni, non si sa più niente.

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