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Foto: Shell Italia

Una sentenza storica di un tribunale olandese ha imposto a Shell obiettivi meno lassisti nella lotta al cambiamento climatico, ma l’azienda promette di fare ricorso

In una sentenza storica, che potrebbe avere un effetto domino e causare una serie di azioni legali internazionali, una corte olandese ha stabilito che i tagli alle emissioni di gas serra previste da Shell sono insufficienti. L’azienda si è detta “delusa” dalla decisione della corte, e ha intenzione di fare ricorso. La giudice Larisa Alwin, dal tribunale dell’Aia, ha ordinato all’azienda di tagliare le proprie emissioni del 45% entro la fine del decennio, e di usare come termine di paragone le proprie emissioni nel 2019. In precedenza, l’azienda si era impegnata a tagliare solo il 20% in questa decade, e usava le emissioni del 2016 — inferiori a quelle del 2019 — per gonfiare l’entità del proprio impegno ambientalista.
Lo scorso anno Shell aveva annunciato il proprio piano per un transizione ecologica, e lo scorso febbraio aveva annunciato una ulteriore accelerazione, che all’epoca era stata lodata come “ambiziosa.”
Il piano si organizzava in questi scaglioni:

  • Riduzione tra il 6 e l’8% entro il 2023,
  • del 20% entro il 2030,
  • del 45% entro il 2035,
  • del 100% entro il 2050.

Tuttavia, come dicevamo, il termine di paragone di queste emissioni era il 2016, nonostante l’anno con le emissioni più alte per l’azienda fosse il 2019. Questo significa che, da un punto di vista strettamente di comunicazione, Shell si lasciava la libertà di non essere ad emissioni zero entro il 2050, e, soprattutto, gli permetteva di gonfiare di qualche punto percentuale il proprio impegno climatico nell’immediato. Non è una nuova strategia — anche gli Stati Uniti lo hanno usato il mese scorso, in modo ancora più sfacciato, usando come benchmark per il proprio taglio delle emissioni il 2005 invece del 1990 — considerato l’anno “standard” per le valutazioni dei tagli delle emissioni di gas serra per gli stati — per mascherare l’entità dei tagli, perché le emissioni nel 2005 erano già marcatamente più basse che nel 1990.
Roger Cox, avvocato per Amici della Terra dei Paesi bassi, ha dichiarato che le organizzazioni ambientaliste devono “raccogliere il guanto” e sfidare le multinazionali, per costringerle a svolgere il proprio ruolo contro l’emergenza climatica: “Oggi è un momento di svolta nella Storia. Questo caso è unico perché è la prima volta che un giudice ha ordinato ad una grande azienda inquinante di rispettare gli accordi di Parigi. È una decisione che potrebbe avere importanti conseguenze per i grandi inquinatori.”
Secondo i dati più recenti raccolti dal Climate Accountability Institute, Shell è la sesta azienda che emette più CO2 e CH4 al mondo. La decisione della giudice è circostanziata, e si basa sull’accusa di Amici della Terra che la leadership dell’azienda sia stata a conoscenza degli effetti negativi delle emissioni di CO2 nell’ambiente già negli scorsi decenni — e non abbia fatto niente per ridurre il proprio impatto ambientale. Shell ha cercato di difendersi dicendo che il rispetto degli accordi di Parigi dovrebbe ricadere interamente sugli stati che hanno firmato la carta, ma il tribunale ha decretato che “fin dal 2012 c’è ampio consenso internazionale che sia necessaria anche un’azione non–statale, perché i paesi non possono affrontare le difficoltà ambientali da sole.”
Bas Eickhout, un europarlamentare olandese dei Verdi, che è parte della Commissione per l’ambiente del Parlamento europeo, ha dichiarato che “Questa sentenza aumenta la pressione sui grandi inquinatori e aiuta l’Europa a stringere la propria policy ambientale. I privati non possono più sfuggire alla crisi climatica: gli obiettivi internazionali devono essere applicati anche per loro.”

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