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“Estado Genocida,” foto di @kasposo77 via Twitter

I sindacati hanno indetto un nuovo sciopero per domani, dopo il fallimento dell’incontro tra governo e i gruppi che hanno organizzato le manifestazioni dei giorni scorsi. Ma a Duque potrebbe interessare mantenere alta la tensione per portare il paese verso l’autoritarismo

Dopo quasi due settimane di manifestazioni in tutta la Colombia, è ormai chiaro che la riforma fiscale è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle tensioni sociali nel paese. A poco è servito che il presidente Duque sia tornato sui suoi passi e abbia annunciato il ritiro della riforma: il popolo ha continuato a scendere in piazza e mercoledì scorso i sindacati hanno annunciato un nuovo sciopero nazionale. 

Tra i manifestanti c’è un grido che sta diventando sempre più forte, che chiede la cessazione delle violenze e degli abusi da parte delle forze armate. Sebbene Duque si sia dichiarato aperto al dialogo con i dimostranti, le maggiori città della Colombia — Cali, Medellín e Bogotá — sono state militarizzate. Così, proteste per lo più pacifiche sono diventate guerriglie urbane, dove membri delle squadre antisommossa continuano ad attaccare civili con gas lacrimogeni, autopompe e proiettili. Al momento si stimano almeno 30 morti, un migliaio di feriti, più di cento persone desaparecidas e una decina di casi di stupro, numeri che potrebbero essere molto più alti secondo le ONG locali.

Il governo ha finora evitato qualunque riferimento ai morti di questi giorni, schierandosi invece a favore delle forze dell’ordine, vittime, a loro dire, della violenza dei manifestanti. Il ministro della Difesa continua, inoltre, a sostenere che l’intervento della polizia sia sempre avvenuto nei limiti del rispetto dei diritti umani e ha dichiarato, senza alcuna prova, che le manifestazioni sono organizzate e finanziate da dissidenti della FARC. Quella di dare la colpa ai “terroristi narcotrafficanti” è un espediente ancora molto utilizzato dai neoliberali, nonostante gli Accordi di Pace del 2016.

Proprio gli Accordi di Pace sono un punto nodale delle proteste da due anni a questa parte. Numerose mobilitazioni, infatti, hanno espresso malcontento per il mancato attuamento delle riforme previste dagli accordi e per l’uccisione in atto da tempo di attivisti e leader sociali. Uccisioni sempre più frequenti dal 2018, anno in cui i neoliberali sono saliti al governo con Duque. Persino l’ONU ha mostrato preoccupazione per il mancato rispetto degli accordi, ricordando come la pace non sia un processo irreversibile. Il governo ha ancora una volta negato la propria responsabilità, puntando il dito contro i dissidenti della FARC contrari a firmare gli accordi. Dal 2020 più di 270 firmatari sono stati assassinati.

Iván Duque Márquez, foto via Flickr

La verità è che le feroci repressioni contro il popolo in Colombia vanno avanti da molto prima che il mondo vi puntasse gli occhi addosso. La Colombia è ad oggi il secondo paese con la più alta spesa militare del Sud America, dopo il Brasile. “Siamo di fronte a una politica governativa che sa dare solo una risposta militare e autoritaria ai bisogni delle regioni”, dice l’economista Estrada. Politica che ha un nome: Álvaro Uribe, mentore di Duque e fondatore del partito neoliberale in Colombia. Definito il Trump colombiano — non a caso conosciuto per i suoi forti legami con la destra Statunitense — Uribe domina la scena politica del paese da dodici anni. Ma questo potrebbe presto cambiare.

Il senatore Cepeda suggerisce che l’aumento della violenza sia organizzato in vista delle elezioni del 2022. Infatti, i sondaggi mostrano che per la prima volta in Colombia potrebbero esserci le condizioni necessarie perché la sinistra vinca le elezioni con Gustavo Petro, ex guerillero e veemente oppositore di Uribe.

Gustavo Petro Urrego, foto via Flickr

Petro, ex sindaco di Bogotá, si era già presentato alle elezioni nel 2018, arrivando secondo, ma questa volta diversi fattori potrebbero giocare in suo favore, primo di tutti la pessima amministrazione di Duque. Inoltre, per la prima volta, le elezioni vedranno la partecipazione di una nuova generazione di elettori per lo più provenienti dall’istruzione pubblica — e non più Cattolica — che non conoscono il picco di violenza della guerriglia e dei paramilitari tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000.

In questa ottica, la brutalità delle proteste, la perdita di controllo delle strade, offrono ai neoliberali la possibilità di far risuonare l’eco della guerra civile e suscitare dubbi su un ex guerillero come Petro. Inoltre, come denuncia ancora Cepeda, la feroce repressione delle proteste potrebbe avere come obbiettivo quello di far uscire il conflitto elettorale dai canali democratici e mettere in agenda la formazione di un governo autoritario, che agevolerebbe notevolmente Uribe con i numerosi procedimenti penali a suo carico. Non bisogna dimenticare che il partito uribista è un partito molto forte, pronto a tutto pur di vincere, e che ha alle spalle una delle più grandi potenze mondiali, gli Stati Uniti, che, con la vittoria de Petro, perderebbero uno dei loro più fedeli alleati in America Latina.

Ieri, lunedì 10 maggio, si è finalmente tenuto il primo incontro tra il governo e gli organizzatori dello sciopero nazionale, dove il governo ha confermato la sua linea di non collaborazione. Duque ha giustificato ancora una volta l’uso eccessivo della forza da parte della polizia e i sindacati hanno indetto un nuovo sciopero per il 12 maggio, lasciando intendere che le manifestazioni, e purtroppo anche le violenze, in Colombia sono ben lontane dall’estinguersi.

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